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ISLAM

Turchia, la parola alle minoranze non sunnite

La Turchia può ancora considerarsi uno Stato "laico"? O sta diventando uno Stato mono-confessionale musulmano sunnita? L'equivoco è nella definizione del laicismo: anche i nazionalisti turchi, che hanno dominato la politica in tutto il Novecento, hanno favorito la repressione delle minoranze religiose. E oggi si respira comunque un clima di completa intolleranza. La parola a due testimoni, esponenti di minoranze: una armena e una alevita.

Libertà religiosa 17_12_2018
Ankara, il mausoleo di Ataturk

La Turchia si sta tramutando sempre più in uno Stato mono-confessionale, in cui l’unica religione consentita è l’islam sunnita? Non è un processo iniziato con Erdogan, si tratta di una tendenza di lungo periodo. Il nazionalismo ha contribuito, anche in un secolo di laicità, a sterminare e scacciare dal territorio turco le minoranze, prima armene, poi greche. Non si è trattato di un percorso di omogeneizzazione solo etnico, ma anche religioso. Le minoranze ci sono ancora, ma sempre più “invisibili”, nel senso letterale del termine.

L’Impero Ottomano è stato edificato anche dalle minoranze. Gli ottomani hanno alternato periodi di relativa tolleranza ad altri caratterizzati da persecuzioni religiose. Tuttavia il problema vero incomincia con il nazionalismo, la cui affermazione avviene sul finire del XIX Secolo e prende il potere, con il golpe dei Giovani Turchi, nel 1908. L’evento traumatico che dà inizio al nuovo corso è il genocidio degli armeni (1 milione e mezzo di morti) durante la Prima Guerra Mondiale, tra il 1915 e il 1916. Il nazionalismo vuole uno Stato etnicamente omogeneo, una “Turchia ai turchi”. Anche se, ufficialmente, è tollerante nei confronti di tutte le religioni, finisce per non ammettere più minoranze non musulmane e non sunnite, religioni tradizionalmente legate a etnie non turche.

La Nuova Bussola Quotidiana ha sentito la testimonianza di due esponenti, entrambe donne, delle minoranze: una armena e l'altra alevita. Le abbiamo incontrate a Milano, presso la sede del Consiglio di Zona 4, nell’ambito di un ciclo di incontri sull’islam. Ma non vogliono rivelare il loro nome, perché le famiglie potrebbero subire gravi conseguenze in Turchia.

“E’ molto difficile parlare con i turchi, soprattutto con i giovani – ci spiega la donna armena – di solito siamo soliti credere che i giovani, gli studenti universitari, siano di mente aperta e che usando Internet siano a contatto col mondo. In realtà non vuol dire niente: i giovani universitari dicono, nel 2018, ancora le stesse cose che motivavano l’odio genocida contro gli armeni di un secolo fa. Dicono che gli armeni ‘ci hanno rubato la terra’, una storia falsa raccontata dai turchi da più di cento anni”.

“Il nazionalismo non è solo di Erdogan. Il presidente attuale è un essere umano e come tale il suo potere è destinato a finire, forse anche presto. Ma nemmeno quelli che lo hanno preceduto ci tolleravano e neppure i suoi oppositori ci vogliono bene. La mia famiglia ha dovuto cambiare cognome, ha dovuto turchizzarsi. Non possiamo parlare la nostra lingua per strada, se narriamo la nostra storia finiamo in carcere. E non sto parlando di un secolo fa, ma della Turchia dei giorni nostri. Quando vado a leggere i commenti agli articoli sui quotidiani, trovo le stesse cose che si scrivevano cento e passa anni fa. L’Anatolia era anche piena di chiese armene, ce n’erano almeno 2500 prima del genocidio, adesso sono una decina, a pezzi”.

“Taner Akçam, uno dei pochi storici turchi che sanno e dicono come sono andate le cose (e infatti vive in esilio), lo dice chiaramente: la Turchia non può ammettere che i suoi padri fondatori siano dei criminali. Ci sono, come Taner Akçam, pochi altri turchi che, correndo rischi gravissimi, cercano di far capire ai loro concittadini che si deve prendere atto del terribile passato, perché il negazionismo ottuso non porta da nessuna parte. Oggi vediamo scuole, strade e piazze dedicate a Talaat, a Enver, agli altri responsabili del genocidio degli armeni. Dogu Perincek, fondatore del Comitato Talaat Pasha, che protesta in tutte le capitali europee contro il riconoscimento del genocidio armeno, è un politico di sinistra, laico, leader del Partito dei Lavoratori: il negazionismo è trasversale. In Europa è stato processato due volte e la Corte Europea, in appello, ha sentenziato a favore della sua libertà di parola, quindi in Turchia si è diffusa la notizia, falsa, che anche la Corte Europea nega l’esistenza del genocidio. Nei comizi dell’islamico Erdogan, in compenso, si possono sentire gli stessi cori genocidi: ‘vi seppelliremo sotto l’Ararat’ ho letto una volta su uno striscione. Questa è la Turchia di oggi”.

L’alevismo, religione che viene considerata come una delle più piccole sette dell’islam, è anch’essa mal tollerata in Turchia. “La prima volta che sono tornata in patria, a 13 anni, ho scoperto cosa volesse dire – ci spiega la testimone alevita, emigrata in Italia sin dall’infanzia – L’ho scoperto quando ero ospite da mia nonna. Erano le quattro del mattino e lei iniziò ad accendere tutte le luci. Pensavo stesse succedendo qualcosa di grave e le chiesi cosa stava facendo. Nulla di grave: tutti i vicini di casa, musulmani sunniti, stavano iniziando il Ramadan e a quell’ora consumavano lo suhur, il pasto prima dell’alba. Non dovevamo far sapere agli altri che noi non facciamo il Ramadan”.

“Ho iniziato a frequentare le associazioni alevite in Italia. Ho anche sempre frequentato l’ora di dottrina cattolica a scuola: i miei genitori volevano che conoscessi la religione del paese che ci stava ospitando. In Turchia, invece, non posso nemmeno dire quel che sono. Mia nonna, dopo dieci giorni in Italia, quando è venuta a trovarci, continuava a ricordarmi: ‘non parlare troppo, non esporti troppo, oggi noi siamo qui, ma quando si torna in Turchia si pagano le conseguenze di quel che dici, ti prendono alla dogana e ti interrogano. Credevo che stesse esagerando, invece una nostra amica, alevita e di origine curda, è stata arrestata in dogana, perché si batte apertamente in difesa dei suoi diritti. Erdogan non è il proprietario della Turchia, però la persecuzione degli aleviti c’è sempre stata. I massacri su larga scala sono iniziati nell’Anatolia centrale nel 1939 e hanno provocato una fuga di decine di migliaia di persone. La strage più recente, che mi tocca da vicino, è quella di Sivas, nel 1993. In un festival che si teneva in una casa di comunità (il luogo di culto alevita, ndr), il palazzo è stato dato alle fiamme dai nazionalisti. I morti sono stati 37 e le autorità turche non sono intervenute. Come si vede chiaramente nei video girati allora, la polizia e l’esercito sono rimasti a guardare, mentre gli aleviti bruciavano”.

Questo senso di isolamento e cancellazione dell'identità delle minoranze è confermato dall'unica ospite dell'evento milanese appartenente alla maggioranza musulmana sunnita. "Sono cresciuta con l'idea che esistessero solo turchi musulmani sunniti. C'eravamo noi e basta. A diciotto anni, all'università, ho incontrato il diverso, un avvenimento, è successo qualcosa di importante. Ho scoperto che nel mio paese esistevano anche i curdi. Ho appreso che avevano sofferto moltissimo, sentire da una persona la propria storia è stato per me un risveglio. Studiando sociologia, una facoltà sotto il controllo della polizia, si viveva incontrandosi. C'era chi, come me, si sorprendeva per le storie degli altri. Ho fatto amicizia con ragazzi aleviti, sono andata a vedere anche i loro incontri religiosi. A Istanbul, nell'azienda in cui lavorava mia sorella, c'era una ragazza armena con cui ho stretto amicizia. Avevo 21 anni e quando sono andata a casa sua, è stata la prima volta che ho visto, dal vivo, una croce".