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MEDIO ORIENTE

Trump si mette in scia di papa Francesco

Con l'incontro oggi in Vaticano si chiude il giro del presidente americano che punta alla collaborazione di islam sunnita, ebraismo e cristianesimo per  rimettere in piedi il processo di pace tra Israele e palestinesi. Ma sulle reali possibilità di tale progetto pesano molti interrogativi.

Esteri 24_05_2017
Trump, Abbas, Netanyahu

Nel tentativo di ravvivare il processo di pace tra israeliani e palestinesi – segnato invano, e  per decenni, da innumerevoli iniziative promosse in vari contesti dalla comunità internazionale e da molte nazioni – la novità esplicitata dal presidente americano Donald Trump, nel suo primo viaggio all’estero, consiste nel progetto di coinvolgere direttamente in esso le tre grandi religioni monoteiste. Il momento, secondo lui, è propizio quindi va subito colto, in quanto  di fronte all’Isis (lo Stato Islamico) si è dischiusa un’opportunità unica di convergenza fra l’islam sunnita, l’ebraismo e il cristianesimo.

Per questo si è recato nella capitale dell’Arabia Saudita, nazione che custodisce i luoghi santi musulmani più venerati della Mecca e di Medina; a Gerusalemme, sede del governo d’Israele, visitando anche il Santo Sepolcro di Gesù e  il Muro occidentale del Tempio ebraico; poi a Betlemme per incontrarvi il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e concludendo il significativo itinerario in Vaticano, apprezzando in particolare l’ impegno personale per la pace di papa Francesco, le sue iniziative e il suo prestigio mondiale.   

Premessa indispensabile è la lotta congiunta all’estremismo musulmano. Che però non potrà aver successo, ha esplicitato Trump, se non condotta apertamente e senza infingimenti da tutto il mondo sunnita. Quando invece è risaputo che alcuni suoi componenti – potenze finanziarie per le ricchezze petrolifere – lo hanno sostenuto. Per questo egli ha voluto veder riuniti a Riad, nella sontuosa residenza del re di Arabia, alleato da sempre degli Stati Uniti, capi di stato e di governo di una trentina di paesi e chieder loro di ripulirli, con decisione e senza riserve mentali, da ogni presenza e contaminazione, soprattutto nelle moschee. Guerra aperta al terrorismo, dunque, e ferma opposizione all’Iran, nazione accusata di fomentarlo anche con la sua corsa all’arma  nucleare.  

L’impegno di essere al fianco del mondo musulmano sunnita è stato concretizzato da Trump non solo con il sostanziale ripudio dell’accordo internazionale atomico con l’Iran, accettato dal suo predecessore Obama, e con la  partecipazione americana alla sicurezza regionale ma anche con una vendita miliardaria di armi all’Arabia Saudita. Che sappiamo tutti impegnata da anni nello Yemen nella guerra contro i rivoltosi sciiti, sostenuti dall’Iran. Nazione che è al fianco del regime siriano di Assad e dei suoi alleati in guerra, non solo gli sciiti libanesi Hezbollah, ma anche la Russia di Putin. Alleati in una guerra straziante le cui conseguenze hanno investito, come ben sappiamo, anche l’Europa.  

Alla luce di questa realtà, al grande conflitto in corso nel Vicino e Medio Oriente tra mondo musulmano sunnita e sciita, nonché ai disegni e interessi “strategici” nell’area perseguiti dal Cremlino,  i propositi di Trump, racchiusi in quello che i suoi collaboratori al seguito definiscono the ultimate deal, e soprattutto le sue affermazioni all’arrivo in Israele, lasciano alquanto perplessi. Il presidente ha detto infatti che «c’è l’opportunità rara di portare sicurezza, stabilità e pace a questa regione, sconfiggere il terrorismo e creare un futuro di armonia e prosperità», precisando comunque che «possiamo arrivarci solo lavorando insieme» e aggiungendo: «Non c’è altro modo».  

Il punto debole del progetto sta in questa condizionale e nella sua assoluta valenza. Per questo Trump non è sceso nei particolari, considerando prematuro – come ha detto in un briefing una personalità del seguito – un suo incontro congiunto con Benjamin Netanyahu e Mahmoud Abbas. E dopo aver auspicato che «il negoziato devono farlo le parti», ha chiarito che gli Stati Uniti si pongono fra di esse non come arbitri ma «facilitatori» e precisato: «Non abbiamo sposato la soluzione dei due Stati, ma non la escludiamo. Israeliani e palestinesi devono decidere come convivere, noi li appoggeremo».

Al momento Netanyahu si è accontentato del cambiamento della politica americana nei confronti dell’Iran, nel segno dell’«amore e rispetto per Israele», e della riaffermazione del ruolo di leadership USA in Medio Oriente. E Abbas ha apprezzato il silenzio, meglio la sospensione del preannunciato trasferimento della ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.   

Ieri l’accoglienza dei palestinesi a Trump è stata all’insegna della violenza, con uno sciopero generale, scuole chiuse, scontri con soldati e l’immancabile dimostrante morto, anche in segno di solidarietà con i detenuti nelle carceri israeliane. E per nulla incoraggiante è apparso il clima della conferenza stampa seguita al colloquio di Trump con Abbas, ben diverso da quello di ieri, aperto alla speranza, avvertito nelle parole di Netanyahu. La ripresa del dialogo si preannuncia quindi per nulla serena e affatto promettente.

Appare comunque scontato per Trump  il coinvolgimento delle autorità religiose nel suo progetto di lotta al terrorismo islamico e per la pace: in effetti egli intende raccogliere i frutti dell’impegno costante della Santa Sede e personale di papa Francesco che in questi ultimi anni ha incontrato in Vaticano illustri rabbini e personalità ebraiche, nonché i presidenti israeliano Peres e palestinese Abbas, presente il patriarca ecumenico Bartolomeo; e inoltre il Rettore dell’università islamica del Cairo e ricambiando di recente la sua visita recandosi in Egitto.

Al momento resta invece nell’orto degli auspici il proposito, espresso ai leader musulmani sunniti,  di «lavorare insieme in particolare contro le aggressioni in queste regioni per limitare le ambizioni militari dell’Iran di diventare uno stato nucleare». E non perché le ragioni non siano valide, ma per evitare quelle ripercussioni interne manifestatesi in qualche Emirato del Golfo. Come appaiono irrealizzabili le condizioni per un ripristino della non belligeranza nella regione tra musulmani sunniti e sciiti. Anzi staremo a vedere come reagiranno i due campi oggi in conflitto; e se la Russia di Putin, che pure si dice in lotta contro il terrorismo e vorrebbe avvicinarsi a Trump, per continuare a indebolire l’Europa, vorrà rivedere le sue relazioni privilegiate con l’Iran.