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Trump si considera un alfiere della pace, ma senza giustizia

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Donald Trump vuole il Nobel per la Pace. Vanta di aver posto fine alla guerra Israele-Iran e a quella in Congo, vuole porre fine a quella in Ucraina. Ma sempre sostenendo la parte più forte, anche contro il diritto.

Esteri 05_07_2025
Donald Trump (La Presse)

Il bombardamento americano degli impianti nucleari iraniani, avvenuto il mese scorso, ha messo fine, almeno per il momento al confronto tra Israele e Iran. Tale iniziativa è stata ampiamente lodata tanto che il deputato repubblicano Buddy Carter ha candidato Trump al Nobel per la pace e tale giudizio viene condiviso anche in Italia da autorevoli commentatori.

Lo stesso Trump, con un pizzico di autocommiserazione, vi ha fatto cenno dicendo che non riceverà mai il Nobel per la pace, qualunque cosa faccia per sedare i conflitti in Ucraina e tra Israele e Iran, aggiungendo «ma la gente lo sa e questo è quello che mi interessa».

Se il conferimento del Nobel è improbabile, viene commentato, lo si deve al fatto che Trump non è simpatico alle ideologie dominanti. Va detto, peraltro, che se tale premio è stato conferito a personaggi come Henry Kissinger, Barack Obama, Yasser Arafat e Menachem Begin, non si vede perché Trump debba essere escluso a priori.

In effetti Trump sta agendo su diversi fronti per mettere fine ad alcuni dei conflitti che divampano nel mondo e tale sua assertività è preferibile all’inazione o all’indifferenza di altri attori che potrebbero e dovrebbero agire in proposito, l’Europa prima di tutti. Il recente accordo tra la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il Ruanda, mirante a ottenere almeno il cessate il fuoco in quella regione martoriata e fortemente voluto dall’amministrazione americana è sicuramente un significativo passo avanti verso una pacificazione. O no?

Le obiezioni a tale processo possono essere le più disparate, dalle mire geopolitiche americane in Africa, allo sfruttamento delle risorse minerarie della RDC ma appaiono deboli e non si vede perché una grande potenza non possa abbinare i propri interessi a una iniziativa diplomatica.

Nel caso della guerra nella RDC, cercando di semplificare una situazione estremamente complessa, abbiamo un movimento guerrigliero, l’M23, costituito da tutsi e sostenuto dal Ruanda che ha invaso il territorio della RDC occupando alcuni capoluoghi e sfruttandone le risorse minerarie.

Contro tale invasione il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva votato all’unanimità la risoluzione 2773 del 21 febbraio 2025 nella quale si riaffermava la sovranità e l’integrità territoriale della RDC e si chiedeva al Ruanda di cessare gli aiuti all’M23 e alla RDC di cessare ogni supporto alle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) di etnìa hutu.

Il 27 giugno Trump ha annunciato la conclusione di “un meraviglioso trattato” rivendicando alla propria amministrazione il merito della trattativa. In realtà dalla lettura degli accordi pubblicati sul sito del Dipartimento di stato americano si rileva come la RDC debba procedere a disarmare le milizie hutu (FDRL) ma non vi sia un corrispettivo impegno del Ruanda nei confronti dell’M23.

Il risultato è che il territorio occupato dall’M23 continuerà a essere tale e ad essere sfruttato economicamente dagli invasori.

In sintesi questa pace legalizza l’occupazione del Kivu da parte dei filo-ruandesi. Il premio Nobel per la pace Denis Mukwege ha affermato che gli accordi «sono una ricompensa per l’aggressione, legittimando il saccheggio della risorse naturali congolesi, costringendo le vittime ad alienare il proprio retaggio nazionale sacrificando la giustizia per assicurare una pace fragile e precaria».

Questa è la pace di Trump: mettere fine ai conflitti opprimendo, preferibilmente, la parte più debole pur di conseguire i propri obbiettivi, che possono anche consistere in una tregua, con estensione della sfera d’influenza americana. Non è una novità: per mettere fine alla guerra in Afghanistan Trump aveva voluto gli accordi di Doha del 29 febbraio 2020 che consegnava il paese ai talebani. Fu una “pace” così vergognosa che non solo non vide la partecipazione del governo afghano ma non fu firmata nemmeno dal segretario di Stato Mike Pompeo, sostituito dal rappresentante speciale Zalmay Khalilzad.

Nella guerra tra Israele e Iran, quest’ultimo è stato apertamente sconfitto sul piano militare (checché ne dica l’ayatollah Khamenei) con l’aviazione israeliana padrona del cielo, ma Trump, (per la pace, beninteso) ha bombardato i siti di Isfahan, Fordow e Natanz.

Nella guerra in Ucraina Trump ha pensato bene di togliere ogni supporto di intelligence a Zelensky per una settimana nel marzo scorso. In tal modo i russi hanno potuto organizzare l’offensiva che ha eliminato il saliente di Kursk. La Russia ha incassato il regalo e ha continuato a operare come prima senza cedere di un millimetro sulle proprie pretese.

Questa settimana, Trump ha tolto gli aiuti all’esercito ucraino, aggravando una situazione già quasi disperata. Dopo una ennesima telefonata fallimentare con Putin, Trump ha cambiato idea un’altra volta e pare che abbia concordato con Zelensky un piano di difesa aerea dell’Ucraina. È una notizia del 4 luglio e dà l’idea di come sia difficile monitorare tempestivamente le scelte di Trump che, però, hanno una propria coerenza: il perseguimento dell’interesse nazionale americano e il proprio prestigio personale, non necessariamente in questo ordine.

Possiamo chiamare questa condotta “realistica” o “pragmatica” ma una cosa è certa: il diritto, la giustizia (senza la quale non può esserci vera pace) non contano più nulla. Gli Stati Uniti, abituati a mollare i propri alleati dalla caduta di Saigon di cinquant’anni fa, non sono affidabili né credibili e non aspirano più ad essere il gendarme del mondo.

Ma il non tener conto del diritto internazionale può portare una sola conseguenza per le nazioni più deboli o più pacifiche: la necessità di tutelarsi attraverso il riarmo e prepararsi alla guerra, pena la propria sottomissione. Trump, checché ne dicano i suoi sostenitori, è il primo alfiere di questa nuova fase politica mondiale di stampo clausewitziano, fondata sulla forza militare come prosecuzione della politica.