Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Francesca Saverio Cabrini a cura di Ermes Dovico
USA

Trump, c'è l'impeachment dietro la cacciata del ministro?

Il licenziamento annunciato da parte di Trump del ministro della Giustizia Jeff Sessions cela lo scontro sul Russiagate, ma all'orizzonte sembra delineare un regolamento di conti per impedire appoggi alla procedura di impeachment. 

Esteri 09_11_2018

Non sono passate nemmeno 24 ore dalla mezza sconfitta alle elezioni “di medio termine” e Donald J. Trump si leva un sasso dalla scarpa esigendo le dimissioni del ministro della Giustizia, Jeff Sessions. È un licenziamento annunciato. Se ne parla infatti da mesi. Addirittura le prime voci risalgono all’agosto 2017, quando a dare l’addio all’entourage della Casa Bianca fu Steven K. Bannon. Ciò nonostante la fuoriuscita di Sessions fa notizia, perché un ministero della Giustizia non è certo la Cenerentola di un governo e perché Sessions è stato un sostenitore granitico di Trump. Anzi, è stato il primo personaggio di rilevanza nazionale ad appoggiare senza riserve la candidatura presidenziale di Trump. Come tale, è stato coperto da valanghe di fango, ma se l’è cavata. Sessions è poi un gran conservatore, e nell’esecutivo di Trump non solo ci stava bene, ma ha pure aiutato a spostare il timone della barca dalla parte giusta. Che ora se ne vada è quindi un vero peccato.

Ma cosa ha portato a questa decisione, comunque grave, trasformando un legame forte in inimicizia?

I giornali di destra e di sinistra lo ripetono da sempre. La causa del dissidio fra Trump e Sessions sarebbe antica, marzo 2017, allorché Sessions si chiamò fuori dalle inchieste sulle presunte collusioni fra Trump e il Cremlino, ovvero il cosiddetto “Russiagate”, rinunciando a svolgere il ruolo di supervisore, ministro della Giustizia qual era, e passando la palla al proprio vice, Rod J. Rosenstein. Ora, lo stesso Sessions è stato più volte chiamato in causa per il “Russiagate”, cosa che ne giustificherebbe il sostengo a Trump e poi la nomina al ministero della Giustizia. All’epoca senatore, Sessions avrebbe infatti incontrato l’ambasciatore russo a Washington, Sergej I. Kisljak, durante la campagna elettorale del 2016. Ma cosa vi sarebbe stato d’illecito in un incontro fra un senatore degli Stati Uniti e un ambasciatore straniero, stante che gli ambasciatori stranieri hanno esattamente il compito d’incontrare uomini politici del Paese che li ospita?

Sia come sia, si è detto che Sessions avrebbe usato questo caso per dichiararsi inadatto a supervisionare il “Russigate” e che questo abbia fatto infuriare Trump. Come se Sessions avesse cercato una scusa per smarcarsi, convinto della colpevolezza di Trump, laddove ha invece solo cercato di essere corretto fino all’eccesso.

A rafforzare questa illazione è poi circolata l’idea che Trump avesse avuto in animo di licenziare Robert Mueller, il procuratore speciale dell’FBI incaricato indagare appunto sul “Russiagate”, e che siccome per farlo avrebbe avuto bisogno dell’approvazione di Sessions, ma Sessions l’approvazione non gliel’avrebbe mai data, Trump avrebbe deciso di far fuori Sessions alla prima occasione, rimandando la cosa solo per l’esplicita richiesta dei vertici del Partito Repubblicano che lo sconsigliavano di compiere una mossa tanto azzardata prima delle elezioni “di medio termine”.

Ma questa è una ricostruzione utile solo a eternare l’immagine di un Trump che ha molto da nascondere e che pertanto elimina stizzosamente uno dopo l’altro tutti coloro che in qualche modo gli si mettono di traverso, camminando persino sul cadavere degli amici. Quella ricostruzione avrebbe cioè un minimo di senso soltanto se il “Russiagate” esistesse. Ma che il “Russiagate” non esista lo dice nientemeno che il procuratore Mueller. Il quale, in mesi e mesi d’indagini, con i media dalla propria parte e la piazza pure, e (secondo quelli che ricostruiscono la vicenda Sessions nei termini riportati sopra) persino il ministro della Giustizia, non ha trovato nemmeno una prova piccola piccola. Non una.

Mueller ha infatti trovato solo faccendieri e intrallazzoni che hanno frodato il fisco, li ha arrestati, ha scoperto che alcuni dei loro affari arrivavano all’Ucraina filorussa, ma si è fermato lì perché altro non c’è. Dopo mesi e mesi d’indagini, il procuratore dai poteri speciali a cui nulla è precluso e davanti al quale ogni porta si apre solo questo ha trovato. Neanche al cancello del cortile esterno della Casa Bianca sono arrivate le indagini dell’FBI. Non c’è nulla, niente di niente. Se dunque la definizione di “Russiagate” è lo scandalo della collusione indebita e illecita fra Trump e il Cremlino, del “Russiagate” finora non vi è traccia.

Quindi che cosa avrebbe avuto Trump da temere da un Sessions presunto “traditore”? Proprio nulla.

La motivazione delle dimissioni estorte al ministro della Giustizia debbono quindi essere altre. Un’ipotesi c’è, e purtroppo è molto, molto volgare.

Trump non teme affatto Mueller, che ogni giorno che passa, non scoprendo nulla contro il presidente, gli fornisce alibi sempre più forti, ma teme invece la Camera dei deputati, dove il 6 novembre i Democratici hanno ottenuto la maggioranza. Basta studiare la retorica scelta da Trump per la lunga conferenza stampa postelettorale tenuta mercoledì mattina (ora di Washington) in cui ha definito la sconfitta alla Camera un successo, successo che sarebbe stato meno significativo se i Repubblicani avessero perso meno seggi degli almeno 30 che hanno perso, e tutto perché così adesso si potrà studiare una politica davvero condivisa. Un paradosso straordinario, arrampicato sugli specchi, come la mano tesa al futuro presidente della Camera (una veterana), quella pessima Nancy Pelosi con cui non è possibile alcun compresso valoriale e politico, che ha una e una sola ragione. Trump lo ha del resto detto esplicitamente: Democratici, se non perderete tempo a indagare su di me, potremo trovare compromessi legislativi ragionevoli.  Trump teme che la Camera rispolveri cioè l’idea dell’impeachment.

L’impeachment deve infatti avere sì il placito del Senato, e con il Senato uscito dalle urne del 6 novembre non lo otterrà mai, ma prende avvio alla Camera. Sapendo che il Senato lo boccerò, se i Democratici lo sfoderassero farebbero la fine dei lemming, epperò la cosa sarebbe sensazionale e per decenni si racconterebbe ai figli e ai nipoti che i Repubblicani collusi con Trump colluso con Mosca hanno zittito d’imperio la giustizia.

Che cosa ha però Trump da temere da un impeachment che non ci sarà? Forse che salti fuori qualcosa sul suo conto. Niente Russia, perché lì c’è Mueller a scagionarlo, ma magari vecchie questioni di aziende fallite, di tasse evase e di cose così che nessuno sa se ci sono, ma, appunto, chissà. La testa di Sessions in un canestro è dunque solo un tweet ai Democratici. Trump non vuole attorno a sé gente che, a torto o a ragione, nella realtà o solo nei sogni dei suoi acerrimi nemici, lo riconduca alle inchieste e ai tribunali. Repubblicano o Democratico che sia, chi tocca quel tasto muore. Quindi, se la Pelosi vuole portare a casa qualche vittoria politica, non sfiori nemmeno lontanamente quei fili scoperti. Il timore maggiore ora sta proprio nel fatto che la Pelosi, furba com’è, mangi la foglia, accetti e imponga un prezzo troppo alto che forse però Trump potrebbe malauguratamente essere disposto a pagare.