Troppo Stato e senza figli, il Brasile si avvia al collasso
Nel generale disinteresse il Brasile sta lentamente sprofondando in un baratro. Eppure dovrebbe interessarci: il suo declino nasce dalle stesse ragioni che stanno distruggendo, anno dopo anno, l'Europa: un mix letale di denatalità imperante e Welfare State opprimente.
Nel generale disinteresse dei media il Brasile sta lentamente, ma con sempre maggiore decisione, sprofondando in un baratro da cui sarà difficile risalire. Eppure quanto sta accadendo nello Stato sudamericano dovrebbe interessarci: non solo perché stiamo parlando del quinto Paese al mondo per estensione e popolazione, ma anche perché il suo declino nasce dalle stesse ragioni che stanno distruggendo, anno dopo anno, l'Europa: un mix letale di denatalità imperante e Welfare State opprimente.
Ma andiamo per ordine. Lo scorso 31 agosto, con 61 voti favorevoli e 20 contrari, il Senato brasiliano ha destituito la “presidenta” Dilma Rousseff che, dopo cinque anni all'apice del potere (più altri cinque come potentissimo ministro della “Casa Civil” sotto il predecessore Lula da Silva), ha dovuto lasciare lo scettro al vicepresidente Michel Temer, del partito centrista del Movimento Democratico Brasiliano. Non si è trattato di un semplice passaggio parlamentare come quelli che in Italia hanno riguardato gli ultimi presidenti del Consiglio prima di Renzi, bensì di un lungo iter cominciato nel dicembre 2015 quando la Camera ha formalizzato la procedura di messa in stato d'accusa della presidente per aver truccato i dati sul deficit di bilancio annuale.
Ad aprile si è così passati alla votazione che ha visto una vittoria schiacciante dei detrattori della Rousseff: quando Bruno Araujo, un deputato di centro destra, è salito sul palchetto di fronte al microfono e ha urlato l'ultimo "sì" che mancava al raggiungimento del quorum di 342 voti, la Camera di Brasilia è esplosa in un urlo liberatorio. Gli altri deputati lo hanno sollevato in aria portandolo in trionfo come un torero vittorioso e si sono messi a cantare: "Sono brasiliano, con molto orgoglio e molto amore".
Anche se la Rousseff ha definito il voto come un “golpe” e si è rifiutata di dimettersi (da qui la destituzione) la scelta del parlamento non rispecchiava altro che il sentimento del Paese. Basti pensare che, pochi giorni prima del voto, una manifestazione contro il governo aveva visto scendere in piazza 500mila persone nell'Avenida Paulista di San Paolo mentre un sondaggio Datafolha sulle performance del governo, condotto in tutto il Brasile, otteneva questi risultati: “negative o pessime” per il 63%, “regolari” per il 24% e “buone o ottime” solo per il 13%.
Del resto sono tanti gli indicatori macroeconomici che ci dicono che il Brasile è sulla via del declino. Anzitutto il bilancio statale che, dal 2013 al 2015, è passato dal -3% al -10,4%; il debito pubblico, nello stesso periodo, è schizzato dal 51 al 66% del Pil (dati Tradingeconomics). Una ricetta di spesa pubblica in grado di garantire crescita e posti di lavoro? Non si direbbe dato che, nello stesso periodo, l'andamento Pil ha visto il Paese sudamericano calare da una già poco virtuosa crescita zero a un terribile -4% di oggi, passando per un picco di -5,9%; mentre il Pil gela, la disoccupazione cresce passando dal 6,2% del 2014 a un massimo dell'11,6% dei mesi scorsi. Insomma, tanta spesa per poca resa, direbbe la saggezza polare. Tanto più che questi risultati negativi hanno seguito, di pari passo, l'incremento del salario minimo da 550 a 880 real brasiliani e le entrate fiscali del governo, a dimostrazione che l'interventismo statale è di solito direttamente proporzionale all'andamento negativo dell'economia.
Eppure uno Stato opprimente e burocratizzato non è l'unico problema che il Brasile deve affrontare. L'altro mostro che mette paura per il futuro prende il nome di bassa natalità: negli ultimi vent'anni il Brasile è passato dalle 24,2 nascite ogni mille abitanti del 1990 alle 15,5 del 2010 .
Se parliamo di figli per donna il Brasile si assesta oggi a quota 1,8, una cifra sì superiore a molti Stati europei (Italia inclusa) ma comunque inferiore al tasso di sostituzione di 2,1. Non solo, il tasso brasiliano è inferiore anche a quello degli stati più importanti delle Americhe: Argentina (2,3), Messico (2,2), Stati Uniti (1.9). Solo il Cile è agli stessi livelli.
Il fatto che si facciano pochi figli è ovviamente ancor più deleterio in un Paese con una forte pressione dell'apparato pubblico. Basti pensare al sistema pensionistico a ripartizione che si sostiene solo nel momento in cui, grazie alla bassa disoccupazione, chi lavora versa tanti contributi per pagare gli assegni ai pensionati. Tanto più che, come racconta questo articolo del New York Times il sistema pensionistico è a dir poco sbilanciato: se i brasiliani si ritirano di media a 54 anni, c'è anche chi ci va dieci anni prima, a volte con assegni faraonici che – per chi cumula più pensioni pubbliche – possono arrivare a 100mila dollari l'anno (trenta volte il salario minimo). Non solo: la reversibilità è così generosa da innescare un “effetto Viagra” di dipendenti pubblici che, fra i sessanta e i settant'anni, sposano donne più giovani, che hanno a loro volta diritto alla pensione per decenni dopo la morte del marito.
L'economista Paulo Tafner ha definito il sistema pensionistico del Brasile “come quello della Grecia, ma più folle e su una scala più colossale”. Per ora i conti hanno retto grazie al continuo indebitamento ma in futuro non ci sarà da contarci. Dall'Italia dovremmo guardare al Brasile con preoccupazione visto che, al di là delle differenze, abbiamo gli stessi problemi di fondo: denatalità e assistenzialismo.