Toghe sobrie e imparziali: basterebbe il buon senso
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L'imparzialità dei magistrati deve trasparire anche all'esterno, specie sui social. Sembra scontato, ma l’immagine di un’intera categoria rischia di venir compromessa da un pugno di faziosi.
I magistrati non solo devono essere imparziali, ma devono anche apparire imparziali. I cittadini si fidano di loro se sanno che applicano la legge in modo equo e senza far prevalere i propri punti di vista e le proprie convinzioni. Sembra un principio banale e scontato, ma purtroppo non lo è. In Italia in modo particolare non lo è. La storia ci ha regalato tante pagine buie della storia della divisione tra i poteri, con il potere giudiziario spesso sbilanciato in favore di una parte politica o comunque non sereno nell’amministrazione della giustizia e nell’applicazione delle pene. Decisioni che spesso puzzavano di partigianeria e faziosità, azioni disciplinari inesistenti nei confronti di magistrati che palesemente avevano contraddetto il principio di terzietà per finalità di lotta politica.
Di recente il termometro dello scontro tra toghe e politica è tornato a salire. Le recenti parole del ministro della Difesa Guido Crosetto a proposito di una probabile controffensiva giudiziaria contro il centrodestra hanno rinfocolato le polemiche e riportato le lancette della storia a epoche di scontro duro e senza esclusione di colpi tra potere esecutivo e potere giudiziario. Lo stesso premier Giorgia Meloni, pur provando a smorzare i toni, nei giorni scorsi ha dichiarato che c’è «una piccolissima parte, anche se rumorosa, della magistratura che per ragioni ideologiche ritiene di dover fare altro rispetto al suo ruolo proprio». D’altronde la libertà d’espressione è sacrosanta, ma la discussione sulla riforma della giustizia non dovrebbe vedere schierati in prima linea i magistrati, che sono invece chiamati con sobrietà e stile a svolgere la propria funzione senza tradire particolari passioni politiche.
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ritiene che da questo punto di vista si sia passato il segno. Molto perentorie le sue parole sul punto, pronunciate durante la discussione su un’interrogazione parlamentare sul caso Apostolico (il giudice siciliano che faceva propaganda anti-Salvini durante gli sbarchi di Lampedusa): «Resta tema centrale l'eventuale reintroduzione nel nostro ordinamento, tra i doveri del magistrato, del divieto di “tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell'istituzione giudiziaria", con la seguente previsione, quale illecito disciplinare extrafunzionale, del divieto di tenere “ogni altro comportamento tale da compromettere l'indipendenza, la terzietà e l'imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell'apparenza”. Tale aspetto formerà oggetto di un'attenta riflessione nella consapevolezza della fondamentale importanza del valore dell'imparzialità di chi è chiamato a svolgere le delicatissime funzioni giurisdizionali, imparzialità che deve essere non soltanto effettivamente sussistente ma anche declinarsi sotto il profilo della sua apparenza».
Il principio è giusto, ma la sua applicazione rischia tuttavia di generare molteplici difficoltà. Difficile, infatti, sanzionare comportamenti contrari alla «apparenza dell’imparzialità». Molte prese di posizione delle toghe risultano nette e integrerebbero senza alcun dubbio gli estremi di quella violazione disciplinare, molte altre sono in realtà più sfumate e quindi complicate da accertare e sanzionare. Tuttavia, da qualche parte bisogna pur sempre iniziare. Peraltro è stato lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è anche il Presidente del Consiglio superiore della Magistratura, ad aver sottolineato in più occasioni che «l’imparzialità della decisione va tutelata anche attraverso la irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il rischio di apparire condizionabili o di parte». Il discorso va esteso in particolare all’uso dei social media da parte dei magistrati, perché, come ha precisato lo stesso Mattarella, «si tratta di strumenti che, se non amministrati con prudenza e discrezione, possono vulnerare il riserbo che deve contraddistinguere l’azione dei magistrati e potrebbero offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria».
Purtroppo dovrebbe essere una questione di coscienza. Ogni magistrato dovrebbe sentire come prioritari questi principi. Peccato che in alcuni casi non sia così e che l’immagine di un’intera categoria venga compromessa dal comportamento spiccatamente fazioso di toghe politicizzate che evidentemente hanno sbagliato ambito di impegno professionale.
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