Tilde, la via della Croce che conforma all’Amore
Malata di tubercolosi fin dall’età di 15 anni, Tilde Manzotti è a lungo incapace di capire il senso di quella sofferenza. Provata nella fede, fino quasi a perderla, incontra l’Ordine Domenicano, diventa terziaria e si abbandona a Gesù crocifisso. Scoprendo che sulla via della Croce si trova la gioia e si partecipa all’opera di salvezza.
«…non devi assolutamente soffrire per me che ho trovato invece la felicità. Quella Tilde che tu hai rievocato nella tua [lettera], sognante ad occhi aperti, ha trovato attraverso la strada del dolore la sua via. Posso e devo dire che non io ho trovato la strada, ma il Signore me l’ha luminosamente indicata, tanto luminosamente che, anche ad avere il cuore cieco, si sarebbe vista ugualmente la luce».
È il 4 marzo 1939 e Tilde Manzotti risponde per iscritto all’amica Saffo Sassi che è in pena per le sue condizioni di salute. Tilde è una ragazza di quasi 24 anni e, da quando ne ha 15, soffre di tubercolosi. Ma negli ultimi mesi le sue condizioni sono notevolmente peggiorate, suscitando commozione tra familiari, amici e religiosi. Eppure, Tilde manifesta una gioia tanto grande da non essere capace a volte di esprimerla a parole, nonostante la sua istruzione e l’eleganza - non ricercata, ma naturale - nella scrittura che emerge dalle sue lettere e dal suo diario. Sono testi che raccontano un cammino spirituale avvincente, che ha condotto Tilde da una crisi di fede a una rapida e intensa ascesa verso Dio. «L’anno scorso poi tu sai quanto ho sofferto», scrive ancora a Saffo nella medesima epistola, «perché sai bene che una natura di fuoco come la mia vuole e desidera quello che le creature non possono dare. Ho sognato, ho creduto in un paradiso che non era se non l’inferno». Il desiderio che Tilde si era illusa di soddisfare attraverso le creature aveva trovato la sua risposta solo in ciò che lei chiamerà, semplicemente, «l’Amore». Quello di Gesù crocifisso, il solo capace di appagare la sete di infinito che Dio ha impresso nelle nostre anime.
Nata a Reggio Emilia il 28 maggio 1915, Tilde è la primogenita dei sette figli di due sposi dalle salde radici cristiane, casalinga la madre (Giuseppa), insegnante elementare il padre (Primo). Sulle orme di quest’ultimo, anche Tilde arriva, nonostante la tubercolosi già insorta, al diploma di maestra elementare. Ma i tentativi di proseguire gli studi, all’università, vengono frustrati dai ricorrenti dolori fisici che la portano sull’orlo della disperazione. È in questa fase della sua vita, tra il ’36 e il ’37, che la fede della giovane vacilla, complici forse delle letture cattive e delusioni amorose. A seguito del trasferimento della famiglia Manzotti a Firenze, nel novembre 1937, inizia la sua seconda esperienza universitaria. Anch’essa sarà interrotta per la malattia, ma è nella città di Dante che Tilde, attraverso l’iscrizione alla Fuci, entra in contatto con l’Ordine dei Predicatori: una tappa fondamentale nel suo cammino. Lei stessa diventerà terziaria domenicana.
È il giugno 1938 quando le sue condizioni si aggravano: per beneficiare dell’aria di montagna, si trasferisce per un paio di mesi in un convento di domenicane sugli Appennini, a Covigliaio. Qui, gode del clima di raccoglimento e di preghiera. E incontra una persona decisiva per riavvicinarsi alla fede e approfondirla: fra Antonio Lupi, domenicano di tre anni più giovane di lei, che giorno dopo giorno l’aiuta a trovare le risposte che cercava e il senso di quelle sue sofferenze. Sofferenze che lei avrebbe dovuto offrire a Dio in unione a quelle di Suo Figlio, morto in croce per salvarci. Grazie a quell’incontro, Tilde matura il desiderio, mai realizzato, di farsi suora. La sua missione, in quell’anno e poco più in cui si consumerà velocemente la sua vita terrena, sarà un’altra. E risulta chiara dai suoi scritti.
Se fra Antonio Lupi avvia Tilde sulla strada dell’abbandono fiducioso a Dio, Tilde diventa («dopo la Madonna e santa Teresa di Gesù Bambino», sono parole del religioso) una vera e propria madre spirituale per fra Antonio e la sua vocazione al sacerdozio, un rapporto di maternità-figliolanza lampante fin dai termini adoperati (lui, tra l’altro, la chiamerà più volte «mammina», lei «bambino», in un contesto generale che lungi dall’essere sdolcinato appare espressione di virtù eroiche). I loro scambi epistolari, insieme a una confidenza fraterna, testimoniano un’unione mirabile tra le due anime, fino al desiderio di patire insieme, a maggior gloria di Dio. «Ho bisogno assoluto di vivere nella certezza di essere a parte di tutte le tue sofferenze anche minime. Ricordati che abbiamo detto al Signore insieme fin dall’anno scorso che volevamo insieme lavorare per Lui e per le anime: quindi tutto - e in prima linea le pene - dobbiamo avere in comune», scrive, ad esempio, fra Antonio a Tilde il 28 luglio 1939. Un desiderio reciproco, anche se Tilde indica al domenicano che lui è chiamato a un “martirio” di diversa natura, cioè più alle prove spirituali che fisiche. E lei, d’altronde, avrebbe offerto molte delle sue sofferenze per la santificazione dei sacerdoti.
Nel frattempo, nell’autunno del ‘38, fra Antonio aveva presentato Tilde a un confratello già sacerdote, padre Stefano Lenzetti (1905-1954), che divenne così il suo confessore. Sotto la direzione spirituale di padre Stefano - che non di rado si trova a dover frenare gli slanci della giovane, decisa a seguire in tutto Gesù e Maria - Tilde professa una serie di voti privati, come il voto di vittima in olocausto di amore e sacrificio, quello di abbandono, quello di obbedienza al proprio direttore.
Nel suo Diario non tralascia di raccontare le aridità, gli assalti del Maligno e i moti di ribellione che dovette affrontare anche negli ultimi suoi mesi di vita, ma sempre a uscirne vittoriosa è la sua sete d’infinito che le fa desiderare Dio sopra ogni cosa. Trova la sua pace in preghiera davanti al Tabernacolo, soffre quando non può ricevere l’Eucaristia o quando le capita di ricevere Gesù ma senza apparente frutto, si addolora per i suoi peccati passati e per chi continua ad offendere il Signore, medita sui dolori Suoi e di Sua Madre.
Il 2 gennaio 1939, piena di gratitudine, chiede una grazia alla Madonna: «Ave Maria! Mammina bella, voglio proprio che tu mi faccia un bel regalo. Voglio soffrire, per la Passione di Gesù, tanto quanto hai sofferto tu. Tu sapessi quanto bene ti voglio pensando al dolore che hai patito! […] Oh Mammina, vedere un figlio sulla croce! Non possiamo staccarlo dalla croce e tenercelo sul cuore, perché nessuno più ce lo faccia soffrire?». E l’11 marzo seguente: «Ave Maria! Et dolor meus in conspectu meo semper (Sal 38,18). Meditavo questo stamattina durante la S. Messa: l’Altare era il Calvario e Tu, Dio adorato, Ti lasciavi straziare da un dolore immane per amor mio». La luce della fede rischiara quello che Tilde non capiva nella prima gioventù, ma ora lei sa che il dolore, se riposto in Lui, genera amore. E salva. Così, sempre quell’11 marzo, dopo l’ennesima dichiarazione a Gesù («io ti amo»), scrive: «T’ho chiesto oggi e per me t’ha chiesto Padre Stefano che Tu mi conceda la grazia d’essere crocifissa con Te».
Passeranno altri sette mesi di malattia prima che possa raggiungere il suo Sposo. È il 3 ottobre 1939, festa liturgica (come da Vetus Ordo) di santa Teresa di Gesù Bambino, di cui era molto devota. Come lei, morta a 24 anni, in offerta all’Amore. Due mesi prima, il 3 agosto, nell’ultimo pensiero appuntato sul suo diario, Tilde aveva scritto: «Ave Maria! Quand’è, Gesù, che per me scenderanno le tenebre sul mondo e io rimarrò sola con Te?». Oggi è Serva di Dio ed è in corso la sua causa di beatificazione.
Per saperne di più:
Tilde Manzotti. Diario spirituale, Nerbini, 2004, a cura di padre Fausto Sbaffoni O.P.