Tienanmen: il regime nega la storia e rivendica il massacro
In Cina, il 4 giugno non esiste. Nei motori di ricerca della Internet cinese, filtrata dal regime, non c'è alcun evento storico avvenuto in quella data. E Tienanmen è solo la grande piazza centrale di Pechino. Per tutto il resto del mondo, oggi, 4 giugno, è il 30mo anniversario del massacro di Piazza Tienanmen. Ecco cosa avvenne allora.
In Cina, il 4 giugno non esiste. Letteralmente. Nei motori di ricerca della Internet cinese, filtrata e censurata dal regime, non è possibile trovare alcun evento storico avvenuto in quella data. Secondo il web cinese, Tienanmen (o Tiananmen, secondo un’altra traslitterazione più usata nel mondo anglofono) è solo la grande piazza centrale di Pechino, in cui campeggia il gigantesco ritratto di Mao Zedong. In ottobre si celebrerà il 70mo anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese, da lui instaurata dopo quattro anni di guerra civile. Per tutto il resto del mondo, invece, il 4 giugno è un triste anniversario: quello della repressione militare della rivolta studentesca cinese, nel 1989. Oggi sono passati esattamente 30 anni da allora. E il principale luogo del massacro è piazza Tienanmen.
È bene ripassare quel che avvenne nell’anniversario dell’evento che per il regime cinese “non esiste”. La reazione a catena che condusse ai fatti di sangue partì 11 anni prima, nel 1978, quando il “grande timoniere” Deng Xiaoping, successore di Mao, denunciò i crimini del fondatore della Repubblica Popolare e soprattutto la sua Rivoluzione Culturale. Per l’occasione annunciò una svolta nella politica del Partito Comunista, ispirata alle “Quattro Modernizzazioni”: agricoltura, tecnologia, industria e difesa. Un elettricista di nome Wei Jingsheng, poi divenuto uno dei più celebri dissidenti del mondo, affisse sul Muro della Democrazia, il grande dazebao popolare di Pechino, un suo articolo sulla “Quinta Modernizzazione”: la democrazia. Solo con la democrazia, secondo Wei, la Cina avrebbe potuto compiere pienamente le altre sue quattro modernizzazioni e diventare una nazione civile e moderna. La proposta non venne accolta e Wei Jingsheng iniziò un lungo calvario nei campi di lavoro e rieducazione (Laogai) che si concluse vent’anni dopo.
La marcia delle modernizzazioni, che riguardò prima l’agricoltura, poi anche l’industria e il commercio, innescò anche un processo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Il segretario generale del Partito, Hu Yaobang, un riformatore, divenne l’icona del cambiamento. Nel 1986, però, cadde in disgrazia e venne esautorato dal suo incarico (ma non epurato) il 15 gennaio del 1987 perché si dimostrò troppo tenero nel reprimere le prime proteste di piazza. Venne accusato di essere un “liberal-borghese”. Il 15 aprile 1989 morì di infarto e il regime non gli concesse funerali solenni. Fu questa la prima causa della protesta del 1989: dopo il funerale solenne, con tutti i vertici del Partito presenti, circa 200mila studenti confluirono in Piazza Tienanmen in onore del defunto segretario. Per molti di loro, la sua caduta in disgrazia era simbolo di abuso di potere dei vertici del Partito. Si trattò, dunque, di una protesta inizialmente tutta interna alla politica del Partito Comunista. Poi divenne qualcos’altro: la richiesta con forza della Quinta Modernizzazione.
Studenti, operai, semplici cittadini di tutte le categorie, riunitisi nella piazza centrale di Pechino, Piazza Tienanmen, di fronte alla ex città proibita imperiale e al grande ritratto di Mao, non mostravano alcuna ostilità al regime comunista. Anzi. Le testimonianze di allora descrivono masse di studenti con i ritratti di Mao, i canti dell’Internazionale, gli striscioni di partito e le bandiere rosse. La manifestazione chiedeva un cambiamento pacifico: più redistribuzione della nuova ricchezza, più libertà di stampa, più libertà di assemblea. Quindi anche libertà di critica. La “provocazione” era troppo forte, irricevibile, per i vertici del Partito. Appena dato l’ultimo addio di Hu Yaobang, iniziò il dibattito interno su come affrontare il nuovo fenomeno politico degli studenti in piazza, che aumentavano di giorno in giorno.
Il Partito Comunista rimase diviso e indeciso sul da farsi per più di un mese. Il nuovo segretario generale Zhao Ziyang (che era succeduto a Hu Yaobang) era favorevole al dialogo con gli studenti. Al contrario, il premier Li Peng sosteneva la repressione dura, anche con l’uso della forza militare. A precipitare la situazione fu la visita del presidente sovietico Michail Gorbachev, allora ancora celebrato in tutto il mondo come campione della causa delle riforme (Glasnost e Perestrojka erano ancora viste come un tentativo di successo di riformare il comunismo in senso democratico), dal 15 al 18 maggio 1989. La stampa di tutto il mondo accorse a Pechino per celebrare un evento storico: era il primo vertice sino-sovietico dopo 30 anni di rottura delle relazioni. Inevitabilmente la stampa di tutto il mondo venne attratta anche dalla protesta, che in quei giorni raggiunse il suo zenit: in piazza, il 19 maggio, si raggiunse un picco di presenze di 1 milione e 200mila manifestanti. Il giorno dopo, il 20 maggio, il “grande timoniere” Deng Xiaoping gettò tutto il suo peso nel dibattito interno al Politburo e fece pendere la bilancia dalla parte della repressione. Il giorno stesso venne proclamata la legge marziale e 30 divisioni dell’esercito vennero mobilitate e inviate nella regione di Pechino.
Per due settimane, militari e manifestanti si fronteggiarono. Un primo confronto fu vinto dai manifestanti. Il 19 maggio notte, prima ancora della proclamazione della legge marziale, le truppe attinte da tre armate entrarono nella capitale, ma si trovarono ben presto circondate e bloccate da folle di manifestanti ben determinati. Vi fu un solo scontro, sul ponte di Dajing, con decine di feriti. Per il resto, truppe e manifestanti si confrontarono pacificamente e, in molti casi, fraternizzarono. Il 24 maggio le truppe vennero ritirate e altre unità furono mobilitate e inviate a presidiare la capitale. A Tienanmen, a fine maggio, secondo i reportage di allora, la protesta stava perdendo slancio, per la frustrazione dovuta alla chiusura completa del Partito di fronte alla richiesta di riforme. La statua della Dea della Democrazia, poi divenuta simbolo della protesta, venne eretta a fine maggio, costruita dall’Università delle Belle Arti, anche per rianimare il movimento. Fu in questa situazione che, il 2 giugno, Deng, senza neppure il consenso formale di tutto il Politburo ordinò lo sgombero forzato di Piazza Tienanmen, anche con “l’uso di tutti i mezzi necessari”.
L’ultima opposizione alla repressione armata giunse proprio dallo stesso esercito che era chiamato a intervenire contro il suo popolo. Il comandante del 38mo Gruppo d’Armata di stanza nella regione di Pechino, il generale Xu Qinxian, si rifiutò di entrare nella capitale senza un preciso ordine scritto. Poi si diede malato e si fece ricoverare. Secondo la testimonianza rilasciata dalla ex fotografa dell’esercito Jiang Lin, ben 7 generali firmarono una petizione contro la legge marziale. La lettera inviata alla Commissione Militare Centrale (l’organo politico di controllo delle forze armate) non venne mai pubblicata e non fu neppure presa in considerazione. Nonostante ci fossero molte avvisaglie di ammutinamento, Deng non cambiò la sua linea.
All’una del mattino del 4 giugno 1989, le truppe dell’esercito cinese entrarono in Piazza Tienanmen e spararono indiscriminatamente sulla folla. I sopravvissuti vennero arrestati in massa. Il numero delle vittime è tuttora sconosciuto. Le “madri di Tienanmen”, associazione dei parenti delle vittime, hanno identificato solo 202 morti. Fonti dell’ambasciata britannica, declassificate appena due anni fa, parlano di “almeno 10.000 caduti”. La stima della Croce Rossa cinese, ritenuta la più affidabile dall’ambasciata statunitense, è invece di 2.600 vittime. La foto simbolo di Tienanmen, un uomo che, da solo, ferma col suo corpo una colonna di carri armati, venne scattata il 5 giugno, a repressione già quasi completamente conclusa. Di quell’uomo, tuttora, non si sa nulla di certo, né che fine abbia fatto.
Il regime cinese si è limitato a stendere una cortina di silenzio assoluto su quei fatti. Ogni anno si arrestano gli attivisti che “rischiano” di diffondere la storia. Quest’anno non fa eccezione: sono almeno una decina i sospetti finiti in carcere. I filtri di Internet censurano tutto ciò che riguarda il 4 giugno. In passato non erano strumenti raffinati e la stessa Borsa di Shanghai aveva subito danni: venivano censurate persino le quotazioni simili alla data proibita. L’unico angolo di Cina in cui si parla liberamente del massacro di 30 anni fa è ancora Hong Kong. Un museo dedicato alla repressione era stato chiuso, poi ha riaperto all’inizio dell’anno. Man mano che la Cina continentale espande la sua influenza sulla città-Stato, la memoria rischia di scomparire anche in quell’enclave. Ma quando si confronta con il mondo esterno, consapevole di quanto avvenuto, il regime cinese tuttora rivendica e giustifica la repressione militare. Domenica scorsa, a Singapore, l’attuale ministro della Difesa, Wei Fenghe, ha definito i fatti dell’89 come “turbolenza politica” e “Le misure adottate dal governo centrale per fermare quella turbolenza, erano giuste. La Cina, da allora, gode di uno sviluppo stabile”.