Terrorismo virtuale, l'Isis cresce anche sul Web
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Apologia del terrorismo, propaganda e reclutamenti online: la rete dell'Isis si espande nel web, ben oltre i normali terreni di azione del gruppo terrorista islamico. E dopo anni di calma apparente, la propaganda sul Web ha ripreso a correre.

Dopo anni di apparente torpore, le ombre digitali del jihadismo sono tornate a farsi visibili. Nei meandri criptati di piattaforme come Telegram e Rocket Chat, le conversazioni, un tempo sporadiche e frammentarie, hanno ripreso a pulsare con ritmo crescente. È nei mesi che hanno preceduto la strage di New Orleans — la notte di Capodanno del 2025, quando quattordici vite furono spezzate e altre cinquantasette ferite — che il cuore oscuro della propaganda ha ripreso vigore, riaccendendo i riflettori su un nemico che non è mai stato del tutto sconfitto: l’ISIS.
Subito dopo l’attacco di New Orleans, un commento apparso in uno di quei canali ha condensato l’ideologia del gesto: «If it’s a brother, he’s a legend. Allahu Akbar» — «Se è un fratello, è una leggenda. Allahu Akbar (Dio è il più grande)». Migliaia di reazioni, condivisioni e risposte hanno trasformato quelle parole in un vessillo digitale dell’attentato.
Pochi giorni dopo, un gruppo di propaganda pro-Isis ha diffuso un video dalla retorica incendiaria, scandito da un monito inquietante: «It’s time to attack, it’s time to destroy […] America’s foundations, ignite a fire» — «È tempo di attaccare, è tempo di distruggere […] le fondamenta dell’America, appiccare un fuoco». Il titolo — «Do they still think we will leave??», «Credono ancora che ce ne andremo??»— suonava come una sfida diretta. Come ha sempre fatto l’islam dalla notte dei tempi, l’Isis utilizza la guerra d’immagini e parole per far bruciare meglio ogni cosa. E lanciare segnali all’Occidente.
L’ondata di messaggi, proclami e invocazioni alla violenza s’era già rivista nell’eco funesta che giunse dalla periferia di Mosca, dove, il 22 marzo 2024, quando l’Isis-K con un commando armato ha trasformato il Crocus City Hall — un teatro gremito di spettatori — in un inferno di fiamme e piombo. Centoquarantacinque anime sono state strappate alla vita in poche ore, in quello che è stato il più letale attacco sul suolo russo degli ultimi decenni. Pochi giorni dopo, i circuiti sotterranei della propaganda hanno diffuso un’immagine destinata a imprimersi nella memoria collettiva: il Campidoglio degli Stati Uniti stagliato contro un cielo livido, accompagnato da un monito glaciale, «You are next».
Quando il 3 gennaio 2024, due esplosioni quasi simultanee hanno squarciato la città di Kerman, nel sud dell’Iran, uccidendo cento persone, servirono ventiquattr’ore all’Isis per rivendicare la strage attraverso un messaggio audio di 34 minuti diffuso dal suo portavoce, Al Furqan. Fu in quell’occasione, in un discorso carico di retorica bellica, che la guerra di Gaza venne presentata dal portavoce dell’organizzazione come una battaglia “giusta contro gli ebrei, e per la terra”, ma con una precisazione che ne svelò la chiave ideologica: doveva restare una guerra di religione, non una causa nazionale. Venne allora lanciata la campagna globale del terrore, «uccideteli ovunque li troviate» (gli ebrei ndr).
Fin dalle sue origini, lo Stato Islamico ha sempre mostrato scarso interesse per la questione palestinese, rifiutando che essa monopolizzasse l’attenzione del mondo islamico; eppure, negli ultimi anni, ne ha fatto un cavallo di battaglia propagandistico, piegandola ai propri obiettivi per colpire i nemici e galvanizzare i simpatizzanti. Soprattutto in Occidente.
Un linguaggio di guerra che, tradotto in rete, trova orecchie sempre più giovani pronte ad ascoltare. Social media, video patinati, riviste digitali, radio locali, pamphlet distribuiti nei mercati, manifesti: lo Stato islamico ha affinato negli anni un arsenale comunicativo capace di adattarsi a ogni contesto. Non è soltanto l’orrore delle esecuzioni sommarie a riempire i suoi canali, ma anche immagini studiate per trasmettere un messaggio di forza e stabilità: la dimostrazione di controllare un territorio, di saperlo amministrare, di poter provvedere ai bisogni dei cittadini. È una propaganda che seduce, rassicura e recluta allo stesso tempo.
Sul terreno, il gruppo resta attivo e in continua metamorfosi. In Siria e in Iraq riattiva cellule dormienti, arruola nuovi combattenti e distribuisce armi. Un’analisi del Middle East Institute avverte che, solo nella prima metà del 2024, l’ISIS potrebbe aver condotto oltre 550 attentati in Siria, ben più di quelli rivendicati e sarebbero circa 3000 i miliziani operativi.
E poi c’è il Sahel, divenuto epicentro di un’escalation feroce. Tra aprile e luglio 2025, Burkina Faso, Mali e Niger hanno subito oltre quattrocento attacchi attribuiti a milizie jihadiste affiliate allo Stato Islamico. Il bilancio, secondo l’Associated Press, è devastante: quasi duemilanovecento morti in soli quattro mesi. È nel vuoto di potere che la propaganda jihadista affonda le proprie radici.
Se ha perso il territorio compatto di un tempo, ha costruito una macchina d’odio online molto più vasta e robusta. Dietro questa capacità comunicativa c’è un’eredità insospettata: quella di alcuni ex membri dei servizi segreti di Saddam Hussein, che dopo la caduta del regime si unirono a Daesh. Conoscevano le tecniche di disinformazione, i meccanismi della paura, il potere delle immagini. Hanno messo queste competenze al servizio del “califfato”, trasformandolo in una macchina capace di diffondere ovunque le proprie idee e modelli di lotta.
È così che è nato un jihad planetario dell’immaginario, capace di generare un nuovo fenomeno: quello dei simpatizzanti a distanza. Ragazzi che, pur vivendo a migliaia e migliaia di chilometri dai fronti di guerra, e senza neanche condividere nessuna storia culturale, si sentono parte della causa fino ad abbracciare l’islam. Giovani reclute, cresciute con il linguaggio e la velocità della rete, che aderiscono con fervore ai messaggi capaci di valicare confini e fusi orari e di creare un esercito invisibile e incontrollabile. In Europa, è la Francia che guida la carica e si erge a simbolo indiscusso dei giovanissimi radicalizzati online.
Il salto generazionale è evidente. Nel 2001, durante la guerra in Afghanistan, al-Qaeda reclutava soprattutto uomini radicalizzati nelle moschee e in ambienti religiosi tradizionali, selezionati con criteri rigorosi: i candidati compilavano addirittura lunghi moduli, indicando perfino i loro studiosi islamici di riferimento. L’Isis, invece, ha puntato tutto sulla fascinazione: l’uso dell’immagine come strumento di potenza narrativa e di seduzione ideologica. Già nel 2015, il think tank Brookings descriveva la propaganda dello Stato Islamico come «immensa e altamente efficace». Oggi, quelle stesse strategie vengono rielaborate con strumenti più sofisticati, ma con la stessa finalità: conquistare menti e cuori attraverso un racconto visivo potente e pervasivo.
Così, giovani delle banlieue francesi, del Mali o del Caucaso possono sognare, paradossalmente, lo stesso paradiso di Allah.