Terrorismo islamista, la minaccia arriva dai Balcani
L'arresto a Milano di una 19enne di origine kosovara affiliata all'Isis apre una finestra sul fenomeno del terrorismo islamista proveniente dai Balcani, soprattutto Bosnia, Kosovo, Albania e Macedonia. È l'eredità prima della guerra dei Balcani e poi della guerra civile in Siria: dai Balcani è partito il maggior numero di foreign fighters. Che, tornati indietro, ora "guardano" all'Europa occidentale.
Il materiale (immagini, video e testi) sequestrato nel cellulare di Bleona Tafallari, la diciannovenne di origine kosovara arrestata ieri a Milano per terrorismo, mostra non solo intima adesione della donna all'ideologia del jihadismo, ma una rivendicazione di appartenenza all’Isis.
Aveva un ruolo propulsivo nell'ambito di un network femminile attraverso rapporti diretti, sempre via chat, con mogli di detenuti per fatti di terrorismo o con mogli di combattenti fuori dall’Italia. Faceva parte del gruppo “Leoni dei Balcani”, costola dell’Isis, diventata famosa per i suoi contatti con Komron Zukhurov, cittadino tagiko di 24 anni arrestato ad aprile 2020 a Tirana, in esecuzione di un mandato d’arresto internazionale emesso dalla Germania per essere parte della suddetta cellula dell’Isis, sospettata di aver pianificato attacchi terroristici contro le forze militari degli Stati Uniti in Europa. I “Leoni dei Balcani” hanno base in Kosovo, Albania e Macedonia e l’arresto della diciannovenne in Italia riaccende i riflettori su un fenomeno pressoché ignorato.
I Balcani Occidentali, le Repubbliche nate dalla dissoluzione della ex Jugoslavia più l'Albania, sono la regione d'Europa con la più alta concentrazione di foreign fighters ritornati dalla Siria e dall'Iraq: fulcro di un jihadismo in forte espansione e che bussa alle porte dell'Italia.
Nel dopoguerra, come ha analizzato il libro d’inchiesta Qatar Papers, i Balcani si sono trasformati in un teatro di proselitismo che ha messo una contro l’altra le Ong islamiche finanziate da paesi del Golfo tra loro rivali. Arabia Saudita e Qatar restano i due attori principali della disputa combattuta a suon di investimenti milionari e “opere caritative”. Sullo sfondo prova ad inserirsi la Turchia che, nell’ottica della dialettica anti-saudita, appoggia il Qatar. E proprio con la Qatar Charity ha contribuito alla costruzione della più grande moschea del Kosovo, a Pristina: la moschea di cinque piani può ospitare 2.500 fedeli e ha diversi centri commerciali ad essa collegati. Lo scopo per tutti è una daʿwa silenziosa quanto violenta.
Il presidente francese Emmanuel Macron rischiò un incidente diplomatico con la Bosnia-Erzegovina, a inizio novembre 2019 quando, durante un’intervista rilasciata alla rivista Economist, definì il Paese balcanico “una bomba a orologeria”, con chiaro riferimento al problema dei jihadisti e dei radicalizzati.
I termini dell’islamismo jihadista nei Balcani sono stati sviscerati nel più recente studio pubblicato dal Combating Terrorism Centre di West Point nel 2020, “Western Balkans Foreign Fighters and Homegrown Jihadis: Trends and Implication”, di Adrian Shtuni.
I foreign fighters sono le avanguardie del jihadismo. Nel rapporto, Shtuni spiega che, dal 2012 al 2019, circa 1.070 cittadini di Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Nord Macedonia, Albania, Serbia e Montenegro sono andati in Siria e Iraq per combattere sotto le insegne dell’Isis e, in misura minore, per Jabhat al-Nusra, poi ribattezzata Hayat Tahrir al-Sham. Il flusso di jihadisti balcanici ha avuto un picco nel 2013-14, per poi recedere e riacuirsi nel 2016. Circa due terzi, il 67%, erano maschi adulti al momento della partenza, il 15% donne e il 18% bambini. Il Kosovo è quello che ha mandato più uomini.
Fin dall'inizio della guerra civile in Siria, Kosovo, Bosnia Erzegovina e Macedonia hanno visto tra i tassi più alti d'Europa di mobilitazione per organizzazioni terroriste jihadiste in rapporto alla popolazione. Sono in testa, in rapporto alla popolazione: il Kosovo, che ha 1,8 mln di abitanti, ne ha visti tornare 242. L'Ue, che a metà 2019 aveva circa 500 milioni di abitanti, ne ha riaccolti meno di 1.500.
Sempre secondo Shtani, è corretto stimare in almeno 15 volte il numero dei foreign fighters gli individui radicalizzati, stima in linea con quanto già calcolato in altri paesi europei.
La crescita della mobilitazione jihadista nei Balcani Occidentali è stata “improvvisa” nella sua manifestazione, ma costante nella sua evoluzione. Il “Country Report on Terrorism” del Dipartimento di Stato americano, già per l’anno 2018 evidenziò un quadro piuttosto problematico per quanto riguarda la Bosnia, sia sul piano giuridico che investigativo.
La Bosnia, in effetti, prima della guerra era estranea a ogni forma di estremismo islamico. Se oggi il Paese è disseminato di comunità wahabite (islam radicale) è perché negli anni ’90 molti mujahidin sono accorsi da Afghanistan, Arabia Saudita e Cecenia per soccorrere i loro fratelli musulmani. In cambio ricevettero onorificenze e la cittadinanza bosniaca, e sono rimasti. Il frutto è un processo lungo che potremmo definire addirittura un’islamizzazione programmata: solo a Sarajevo, le stime al ribasso parlano di oltre 3000 islamisti.
I foreign fighters sono solo, infatti, la manifestazione più visibile di un fenomeno più vasto di militanza religiosa nei Balcani Occidentali, che non è facile misurare e che oggi cresce nelle moschee. Le stesse dove i figli di immigrati turchi in Europa vengono mandati a studiare da imam.
Il Cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, da anni denuncia l’islamizzazione forzata della Bosnia: “Non riusciamo a costruire le nostre chiese, mentre negli ultimi anni sono nati più di 70 centri di culto musulmano solo a Sarajevo, e in tutto il Paese più di 100 moschee”. Il cardinale ha sempre puntato il dito non solo contro la leadership politica bosniaca, ma anche e soprattutto verso l’Europa che assiste inerme a un processo che invece la riguarda da vicinissimo.
Il rapporto del Combating Terrorism Center raccomandava di dedicare “attenzione speciale” e “risorse” per meglio “monitorare e contrastare attivamente le robuste reti jihadiste” attive nei Balcani. Inclusa la Macedonia del Nord. Di là era originario il ventenne abbattuto dai poliziotti viennesi il 2 novembre 2020, quando si rese protagonista di una serie di sparatorie nel centro storico della capitale austriaca al grido di “Allah è grande”. Il percorso e la radicalizzazione dell’attentatore 20enne, Kujtim Fajzulai, somiglia tantissimo a quella della 19enne arrestata a Milano.
A febbraio 2021, la Presidenza del Consiglio dei Ministri italiana, pubblicava l’edizione del 2020 della Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza. Una raccolta analitica di dati, eventi e tendenze su politica, geopolitica e terrorismo a cura del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, con un bel paragrafo dedicato alle mosse dell’internazionale jihadista nei Balcani.
Per gli analisti dei servizi segreti italiani “i Balcani [sono] l’epicentro continentale del proselitismo [jihadista] e un potenziale incubatore della minaccia terroristica verso lo spazio Schengen”. I servizi nostrani hanno anche rammentato la minaccia sempreverde, e pericolosissima, posta da quegli “imam radicali e predicatori carismatici di origine balcanica operanti in Europa (Italia inclusa), in grado di spostarsi e mantenere contatti con estremisti e soggetti radicalizzati presenti nel territorio europeo e nazionale”.
I Balcani sono a un passo e la 19enne di Milano ce lo ha ricordato.