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NIGERIA E BURUNDI

Terrorismo e corruzione, i vescovi africani in prima linea

I vescovi della Nigeria hanno diffuso un messaggio in cui sollecita governo, organizzazioni umanitarie e la Chiesa stessa a compiere uno sforzo per la ricostruzione e la riconciliazione, con un impegno particolare contro la corruzione e in favore delle vittime di Boko Haram e delle loro famiglie. 

Esteri 25_09_2015
Terrorista di Boko Haram

Ci sono Pastori che difendono il loro gregge a costo della vita stessa.  I vescovi africani sanno di rischiare quando si prodigano per la riconciliazione e la pace delle loro comunità, dei loro Paesi, ne affrontano i problemi economici, sociali e politici, e, soprattutto, quando denunciano le colpe delle classi dirigenti interpellando i leader politici pubblicamente e direttamente per richiarmarli alle loro responsabilità morali e ai loro doveri istituzionali.

Il 20 settembre i jihadisti Boko Haram, in Nigeria, hanno messo a segno tre attentati dinamitardi nella città di Maiduguri, uccidendo 54 persone e ferendone quasi 100. Da maggio, dopo che il nuovo presidente della Repubblica, Muhammadu Buhari, ha iniziato il proprio mandato, Boko Haram ha moltiplicato attentati e attacchi con effetti negativi sempre più gravi sulla vita economica e sociale delle regioni maggiormente colpite.  La Conferenza episcopale della Nigeria il 21 settembre, il giorno successivo alla strage di Maiduguri, ha diffuso un messaggio in cui sollecita governo, organizzazioni umanitarie e la Chiesa stessa a compiere uno sforzo coordinato per la ricostruzione e la riconciliazione, con un impegno particolare in favore delle vittime di Boko Haram e delle loro famiglie. 

Ma i vescovi non si sono limitati a questo e sono andati alla radice della crisi che affligge gli Stati nordorientali della federazione nigeriana. Punto centrale del loro messaggio, infatti, è stata, ancora una volta, la denuncia della corruzione dilagante in tutto il Paese, a tutti i livelli, prima e determinante causa della povertà e dei tanti problemi che ne derivano, incluso il terrorismo stesso: sia perché i jihadisti trovano facile consenso tra i poveri scontenti e sfiduciati, soprattutto tra i giovani senza prospettive, sia perché molto del denaro destinato alle spese militari necessarie a rafforzare l’esercito viene stornato da funzionari e militari corrotti, lasciando sguarnite e demoralizzate le truppe incaricate di combattere i terroristi. 

La Nigeria da oltre mezzo secolo produce petrolio, ne è il primo produttore del Continente africano. Tuttavia, quasi il 70% della sua popolazione vive sotto la soglia di povertà. Nei decenni trascorsi dall’indipendenza, che risale al 1960, i governi succedutisi non hanno approfittato delle risorse finanziarie derivanti dall’esportazione del greggio né per rendere indipendente il paese dal punto di vista energetico né per diversificare l’economia favorendo lo sviluppo di altri settori produttivi. Il crollo del prezzo del petrolio ha dato il colpo di grazia a un’economia già compromessa. Il risultato è un’emergenza sociale a causa di una disoccupazione che i vescovi definiscono ormai “fuori controllo”, che spinge molti nigeriani, in particolare i più giovani, a emigrare.  

«Bisogna contrastare le sperequazioni sociali», scrivono i vescovi, «mettendo fine al paradosso di una grande maggioranza in condizioni di povertà e di un’élite di funzionari e dirigenti che guadagnano somme enormi di denaro». Nel loro messaggio definiscono la lotta alla corruzione una «battaglia per l’anima e l’essenza stessa della Nazione. Il loro appello si rivolge a tutta la popolazione: «tutti dovrebbero partecipare a questa lotta, a tutti i livelli, affinché possiamo ricuperare le nostre opportunità perdute». È un appello, quello dei vescovi nigeriani, ufficialmente accolto con favore, ma che disturba sia i terroristi e la parte di popolazione, in ogni categoria sociale, che li sostiene sia chi, dai vertici alla base dell’apparato statale, si avvantaggia di un sistema corrotto.  

Ancora più rischiosa è la posizione assunta dalla Chiesa cattolica in Burundi, un Paese in crisi per il riaccendersi dello storico conflitto tra le due principali etnie, i Tutsi e gli Hutu, all’origine di una guerra civile che tra il 1993 e il 2005 ha causato 300.000 morti. Lo scorso aprile la decisione del presidente Hutu Pierre Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato, aggirando con un espediente il limite costituzionale di due mandati presidenziali per persona, ha scatenato violente proteste popolari represse brutalmente, con decine di morti. La sua vittoria elettorale era scontata. All’indomani delle elezioni, una parte dei leader all’opposizione hanno accettato la resa in cambio di cariche di governo, tradendo i loro sostenitori. Poi il presidente riconfermato ha iniziato a regolare i conti con gli altri. Il rischio di guerra civile è concreto. 

Per questo la scorsa settimana la Conferenza episcopale, che già aveva condannato la decisione del presidente Nkuunziza di ricandidarsi, ha diffuso un comunicato in cui chiede alle parti politiche un dialogo produttivo, al governo l’apertura a un negoziato con l’opposizione e, a tutta la popolazione, di «abbandonare la via del male, le uccisioni e la vendetta, l’esclusione, il regno della menzogna, e l'uso della forza per prendere il potere o mantenerlo». La risposta del governo è arrivata il 22 settembre, secca e minacciosa: «non ci saranno mai negoziati con chi è ricercato per insurrezione (vale a dire, chiunque si opponga all’attuale maggioranza, n.d.A.) L’unica soluzione con loro, è prenderli e processarli».