Televisione e libertà
Sono troppi i passi indietro fatti dai media nel rispetto per la capacità di giudizio della gente. Gli spettatori sono sacchi vuoti da riempire di emozioni. Ma almeno in circostanze straordinarie, qualche alternativa al chiacchiericcio ci sarebbe.
Su una delle reti radiofoniche della Rai qualche settimana fa, nel corso di una rubrica del primo pomeriggio, è stato ritrasmesso un documento audio vecchio di mezzo secolo che mi è rimasto impresso nella memoria. Si trattava della notizia diffusa il 22 novembre 1963 dell’assassinio del presidente americano John F. Kennedy, avvenuto quel giorno a Dallas. L’annunciatore concludeva informando che da quel momento la Rai in segno di lutto avrebbe sospeso le trasmissioni (una sospensione poi durata, se non ricordo male, per diverse ore). Erano ancora tempi in cui la radiotelevisione di Stato aveva il monopolio assoluto in Italia; quindi non c’era il rischio che qualche concorrente potesse approfittarne.
Già fare un’osservazione del genere ha però qualcosa di anacronistico: se pur la Rai avesse all’epoca avuto dei concorrenti questi non avrebbero di certo esitato a comportarsi allo stesso modo.
Ciò che piuttosto colpisce nell’episodio è che esso fa capire con chiarezza quanti passi indietro i media abbiano fatto da allora ad oggi per quanto concerne il rispetto per la capacità di giudizio della gente comune; insomma per la libertà di ognuno di noi. Mi ero completamente dimenticato che in quei tempi in caso di grandi lutti si facesse così, ma nel riascoltare la trasmissione mi si è risvegliata la memoria. E quindi mi sono ritornati alla mente i motivi per cui o si sospendevano la trasmissioni o la radio passava a trasmettere solo musica classica: perché si voleva lasciare a chiunque il suo spazio di riflessione e di meditazione personali.
Adesso invece in casi del genere i canali radiotelevisivi si precipitano a gara sull’accaduto sommergendolo sotto una valanga di immagini per lo più sempre uguali ripetute centinaia di volte (che quindi comunque sproporzionano l’evento), di commenti estemporanei e inutili, di particolari irrilevanti, di tragici dettagli senza speranza, di parole di testimoni frastornati presi al laccio da cronisti a caccia di emozioni d’accatto e così via. Secondo i casi almeno per un giorno o due, ma anche eventualmente per settimane. Al contrario del silenzio o della musica classica di cui si diceva, tutto ciò serve piuttosto a impedire la capacità di giudizio e di riflessione della gente.
I radioascoltatori, i telespettatori vengono visti e trattati non come persone ma come sacchi vuoti da riempire di emozioni peraltro di corta durata il cui “precipitato” è uno scettico e impotente sconforto nei riguardi della realtà e del mondo in cui si vive.
È indubbio che oggi il nobile silenzio radiotelevisivo di cui si diceva non è più materialmente possibile. Mi sembra però che, almeno in circostanze straordinarie, qualche alternativa all’attuale chiacchiericcio planetario permanente sarebbe immaginabile.