Tassare le big tech per punire Trump non è detto che funzioni
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L’introduzione di una web tax europea potrebbe avere effetti collaterali. Uno degli aspetti più preoccupanti è la possibilità che i costi di questa tassazione aggiuntiva vengano scaricati sui consumatori e sulle imprese europee.

L’Europa sta valutando l’introduzione di una web tax su base continentale, una misura che avrebbe come obiettivo quello di colpire le piattaforme digitali come Amazon, Google, Apple, Microsoft, Meta e altre. Queste aziende, grazie al loro modello di business, riescono a monetizzare i dati degli utenti senza necessariamente contribuire in modo adeguato ai sistemi fiscali dei paesi in cui operano, nonostante i ricavi derivanti da un pubblico vasto e globale. L’imposta potrebbe colpire i colossi tech in relazione al loro fatturato, rispecchiando le sperimentazioni già avviate in alcuni Paesi europei, come la Francia, il Regno Unito e l’Italia, che hanno introdotto singole digital tax nazionali per far fronte alla carenza di una regolamentazione armonizzata a livello europeo. La proposta di una DST europea nasce proprio dalla necessità di uniformare tali iniziative, creando una normativa comune che, pur preservando gli specifici interessi dei singoli Stati membri, permetta una reazione compatta alle politiche fiscali statunitensi e alla decisione di Trump di imporre i dazi all’Europa.
Da una parte, la tassazione delle big tech può essere vista come una misura giusta, soprattutto per contrastare lo strapotere economico che queste aziende esercitano sul mercato globale. Le grandi piattaforme digitali hanno ormai un’influenza enorme sulla vita quotidiana, dalla gestione dei dati personali degli utenti alle decisioni economiche globali, passando per l’impatto che esercitano sulle piccole e medie imprese. Le multinazionali tecnologiche rappresentano un settore che non solo guadagna ingenti profitti, ma sfrutta anche una base di dati enorme, che diventa un bene economico a tutti gli effetti.
Eppure, nonostante la centralità delle tecnologie nella nostra economia, queste società spesso riescono a evitare la tassazione adeguata, attraverso il ricorso a pratiche di elusione fiscale o a meccanismi legali che consentono loro di spostare la tassazione in giurisdizioni più favorevoli, come l'Irlanda. Il principio della Digital Services Tax, quindi, nasce dalla necessità di correggere un mercato che, altrimenti, risulterebbe sbilanciato e ingiusto per i Paesi europei.
D’altro canto, l’introduzione di una web tax europea potrebbe avere effetti collaterali, alcuni dei quali non immediatamente percepibili ma potenzialmente dannosi per l’economia digitale. Uno degli aspetti più preoccupanti è la possibilità che i costi di questa tassazione aggiuntiva vengano scaricati sui consumatori e sulle imprese europee. Le piattaforme digitali, infatti, potrebbero compensare la nuova imposta aumentando i prezzi dei loro servizi, o limitando le loro offerte, creando un impatto negativo sui piccoli imprenditori e sui consumatori finali. In altre parole, l’imposta, se non ben calibrata, potrebbe rendere più costoso l'accesso a servizi essenziali per le attività economiche, penalizzando la competitività dell’economia digitale europea, che già soffre della concorrenza globale delle grandi aziende tech.
Un ulteriore rischio è rappresentato dalla possibilità che la web tax venga interpretata come una misura protezionistica, con l’effetto di alimentare una guerra commerciale tra Europa e Stati Uniti. Le recenti dichiarazioni politiche, che sottolineano l’intenzione di Bruxelles di rispondere in modo "proporzionato" alle politiche fiscali degli Stati Uniti, suggeriscono che la web tax potrebbe essere utilizzata come contromisura alle politiche dei dazi imposte da Washington su acciaio, alluminio e automobili. Una tale strategia potrebbe portare a un’escalation della tensione tra le due sponde dell’Atlantico, con il rischio di danneggiare ulteriormente le economie di entrambe le aree. La stessa Commissione europea è consapevole di questo pericolo, tanto che si parla più di "contromisure" che di una vera e propria guerra commerciale. L’obiettivo, quindi, non sarebbe quello di aumentare ulteriormente la frizione, ma di trovare una soluzione che tuteli gli interessi economici europei senza danneggiare irreparabilmente il mercato digitale globale.
Sul fronte pratico, l’implementazione della Digital Services Tax a livello europeo potrebbe non essere così semplice come potrebbe sembrare. L’esperienza di Paesi come la Francia e l’Italia, che hanno già introdotto una digital tax nazionale, ha messo in evidenza le difficoltà di gestione e le sfide legate alla sua efficacia. Le imposte sul fatturato, infatti, non sempre si traducono in un gettito adeguato, e la frammentazione geografica dei sistemi fiscali europei rende complesso il compito di monitorare e far rispettare tali normative.
A ciò si aggiunge la difficoltà di determinare il valore del "dato digitale", che rappresenta una risorsa fondamentale per la valutazione del potenziale economico delle piattaforme. Alcuni esperti suggeriscono che un'eventuale "accisa digitale", simile a quella sulle estrazioni minerarie, potrebbe rappresentare una soluzione più efficace, ma questa proposta comporterebbe anche la necessità di definire una metodologia condivisa a livello europeo, una sfida non banale.
Nonostante le difficoltà, l’introduzione di una web tax europea potrebbe rappresentare una mossa strategica utile non solo per contrastare le pratiche fiscali elusive delle big tech, ma anche per rafforzare il ruolo dell’Europa nell’economia digitale globale. L’UE, infatti, è ben consapevole che le piattaforme tecnologiche operano in un mercato che non conosce confini nazionali, e che la regolamentazione fiscale deve evolvere per tenere il passo con l’innovazione tecnologica. Tuttavia, il successo di una simile iniziativa dipenderebbe dalla capacità dei Paesi membri di trovare un accordo condiviso, evitando rischi di frammentazione che potrebbero minare l’efficacia della misura.