Tacito e quell’antipatia preconcetta verso gli Ebrei
Nella descrizione degli Ebrei contenuta nelle Historiae, Tacito riporta informazioni di seconda o terza mano, spesso erronee, frutto di un aspro pregiudizio nei confronti di quel popolo. Si rintracciano qui i segni di un antisemitismo nascente, espressione anche di una cultura che vede negli Ebrei un popolo dalla forte identità, non assimilabile ai Romani.
Le Historiae di Tacito, dedicate all’annus terribilis e all’età dei Flavi, ci sono giunte gravemente lacunose. Ci restano soltanto i primi quattro libri integrali e l’inizio del quinto di un progetto integrale di dodici o di quattordici libri. Nella stesura dell’opera Tacito si avvale sia delle opere di Plinio il Vecchio (A fine Aufidii Bassi e Bella Germanica) che della personale esperienza maturata sul campo.
I primi quattro libri sono dedicati all’annus horribilis (il 69 d. C., l’anno dei quattro imperatori Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano). Il V affronta, invece, le vicende della guerra giudaica, partendo da un excursus di carattere storico, geografico ed etnico.
Nella presentazione e nella descrizione degli Ebrei, Tacito non rivela, però, la stessa meticolosità e il rigore di cui s’è avvalso nell’analisi dei Britanni e dei Germani, in quanto riporta informazioni di seconda o di terza mano, spesso non verificate ed erronee, frutto di un pregiudizio fortemente negativo e aspro nei confronti di quel popolo. Si potrebbe anche dire che nei capitoli delle Historiae si rintracciano già i segni di un antisemitismo nascente, specchio non solo di una personale visione dello storiografo, ma espressione anche di una classe dirigente romana che vede negli Ebrei un popolo dalla forte identità, non assimilabile ai Romani.
Gli Ebrei erano ormai diffusi in tutto l’impero, probabilmente quattro milioni nel territorio romano e quasi 40.000 nella sola Roma. Numerosi erano anche presso Alessandria d’Egitto, la seconda città dell’impero nel II secolo d. C., che contava all’incirca 300.000 abitanti, a cui si dovevano aggiungere gli schiavi. Sede del prefetto d’Egitto, quando questa terra divenne provincia direttamente controllata dall’imperatore, Alessandria fu una delle città da cui per prima si diffuse l’ostilità nei confronti del popolo ebraico.
Già nel capitolo III del V libro delle Historiae emerge un tono antisemita quando Tacito racconta le ragioni dell’esodo del popolo ebraico dall’Egitto, dovute, a suo dire, alla diffusione di una pestilenza che il re Boccori volle fermare con l’espulsione degli Ebrei:
La maggior parte degli autori concorda che in Egitto, essendo sorta una pestilenza che deturpava i corpi, il re Boccori, consultato l’oracolo di Ammone per chiedere un rimedio, ebbe l’ordine di purificare il regno e di trasferire in altre terre questa razza invisa agli dei. Furono quindi ricercati, radunati in folla, ed abbandonati nel deserto.
Tacito racconta, poi, il viaggio nel deserto sotto la guida di Mosè fino all’arrivo in una nuova terra e alla fondazione di una nuova città e di un tempio:
Mentre gli altri se ne stavano inerti a piangere, uno degli esuli, Mosè, li ammonì a non aspettarsi nessun bene, né dagli uomini né dagli dei, perché entrambi li avevano abbandonati. Dovevano confidare in se stessi e affidarsi, come una guida celeste, a colui che li aveva aiutati per primo nelle angustie presenti. Tutti furono d’accordo e, poiché non avevano nessuna conoscenza dei luoghi, si misero in marcia in una direzione qualsiasi. Ma nulla li faceva tanto soffrire quanto la mancanza d’acqua e, dappertutto, cadevano a terra, già vicini alla morte, quando una mandria di asini selvatici, che tornava dal pascolo, si mise a fuggire verso una montagna ombreggiata da un bosco. Mosè, avendoli seguiti e constatato che il terreno era erboso, scoprì delle vene d’acqua abbondanti. Fu un sollievo e, dopo sei giorni di marcia, il settimo occupano la terra dove fu eretta la città e consacrato il Tempio, scacciandone gli abitanti. »
Il racconto dell’esodo degli Ebrei nei libri dell’Esodo e del Deuteronomio è molto distante dal testo tacitiano. Gli Ebrei giunsero nella terra d’Egitto sotto la guida di Giacobbe (nipote di Abramo) durante una grave carestia e vi rimasero fino alle persecuzioni del faraone (forse Ramses II) del XIII secolo a. C. La lettura dettagliata dell’esodo del popolo ebraico nella Bibbia permette di cogliere la distanza tra le due storie raccontate.
Nel capitolo IV, Tacito descrive le usanze del popolo ebraico, sottolineando la diversità di quel popolo e la distanza tra la loro religiosità e quella romana con parole improntate ad acredine. Sentiamo l’ostilità di Tacito direttamente dal testo latino: «Profana illic omnia quae apud nos sacra, rursum concessa apud illos quae nobis incesta». Ovvero: «Presso di loro son profane tutte le cose per noi sacre e, per contro, considerano lecite tutte quelle illecite per noi». Racconta Tacito che fu Mosè che «diede dei riti nuovi e contrari a quelli degli altri mortali» «per assicurarsi per sempre la fedeltà di quella gente».
Tacito riporta, poi, una serie di considerazioni e di riflessioni sulle usanze degli Ebrei che rivelano un profondo fraintendimento dei loro costumi. In primis racconta che venne consacrata in un santuario la testa di un asino, l’animale che nel racconto di Tacito avrebbe condotto gli Ebrei verso la sorgente d’acqua, mentre in realtà gli Ebrei non potevano raffigurare essere viventi e collocarli nel tempio, perché sarebbero caduti nell’idolatria. Gli Ebrei erano accusati di venerare l’asino (onoiatria), rimprovero che venne più tardi rivolto anche ai cristiani, spesso associati agli Ebrei. In secondo luogo, Tacito ricorda che gli Ebrei non consumano carne di maiale, perché da quell’animale un tempo contrassero la scabbia. In realtà, il divieto nella religione ebraica derivava dalla proibizione di mangiare carne impura, poiché il maiale non rumina e non ha l’unghia spaccata. Inoltre, il digiuno non ha la funzione di ricordare i tempi della fame (come scrive Tacito), ma ha una valenza purificatoria, così come l’assunzione del pane azzimo (senza lievito) non avviene in ricordo della messe rubata agli Egizi, ma in ottemperanza ai riti ebraici che prevedevano l’obbligo di mangiare pane azzimo per celebrare la partenza dall’Egitto.
I fraintendimenti continuano:
Affermano di doversi riposare il settimo giorno, perché aveva posto fine alle loro fatiche. Ma, attratti dall’ozio, consacrano al riposo anche il settimo anno. Altri dicono che lo facciano per rendere onore a Saturno, sia che abbiano ricevuto le basi della loro religione dagli idei che, scacciati assieme a Saturno, si ricordano quali progenitori di quella gente, sia perché, tra i sette astri che reggono il destino degli uomini, il pianeta Saturno ha l’orbita più elevata e la potenza più grande, ed anche perché la maggior parte degli astri compie la propria corsa e la propria rivoluzione secondo dei numeri multipli del sette.
In realtà, il settimo giorno è sacro perché richiama il settimo giorno della Creazione in cui Dio si è riposato. Il giorno sacro degli Ebrei, il settimo, è il sabato, che diventa il giorno del riposo, della famiglia, della preghiera. L’anno sabbatico (ogni sette anni) era per gli Ebrei un momento in cui i campi venivano lasciati a riposo e venivano condonati i debiti ai debitori divenuti schiavi.
Nel capitolo V si accentua l’asprezza di Tacito che mostra fastidio per la «potenza dei Giudei», per l’ostinazione della loro fede, la solidarietà tra gli appartenenti allo stesso popolo, mentre secondo lo storico gli Ebrei «nutrono un odio ostile contro tutti gli altri». Gli Ebrei «non mangiano e non dormono assieme a non Ebrei; è una gente che, pur essendo incline alla libidine, si astiene dalle unioni con donne straniere, mentre tra loro non c’è nulla d’illecito». Tacito si sorprende ancora, perché gli Ebrei non possono uccidere i figli nati dopo il primo, confidano che le anime vivano in eterno, quindi sono contenti di avere dei figli e «disprezzano la morte». Ancora Tacito sottolinea che gli Ebrei preferiscono inumare i morti, come gli Egizi, e inoltre:
considerano empi coloro che modellano gli dei a immagine degli uomini, con materiali destinati a perire; credono in un Essere Supremo, eterno e imperituro, che non si può rappresentare. Nelle loro città non elevano quindi statue, nemmeno nei templi, e rifiutano questa adulazione ai re, questo onore ai Cesari.
Insomma, quanto finora descritto da Tacito nelle Historiae appare improntato talvolta ad approssimazione e a imprecisione, altre volte ad un pregiudizio nei confronti di un popolo che appare legato (incomprensibilmente per Tacito) alle proprie usanze e alla propria identità.