Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
CONTINENTE NERO

Sudan, secondo golpe in due anni. Nessuna sorpresa

Sudan, due anni dopo il golpe che aveva rovesciato il dittatore Bashir, un secondo golpe militare ha deposto il governo di transizione. Il tentativo di democrazia sudanese stava fallendo, fra tensioni tribali, fame e miseria, corruzione rampante e moltiplicazione dei partiti, come racconta a Fides il vescovo di El Obein, mons. Trille.

Esteri 26_10_2021
Khartum (Sudan), manifestanti pro-governo civile

A un mese dal colpo di stato tentato e fallito dai sostenitori dell’ex presidente Omar el-Bashir, deposto con un golpe nell’aprile del 2019, i militari hanno sospeso in Sudan il governo di transizione, hanno messo agli arresti domiciliari il primo ministro Abdallah Hamdok e quattro ministri civili, assunto il controllo delle istituzioni politiche e dei mezzi di comunicazione e chiuso le frontiere. È successo nella notte tra domenica 24 e lunedì 25 ottobre. La notizia non ha colto di sorpresa perché l’instabile situazione politica del Paese si era andata rapidamente deteriorando nelle scorse settimane.

Il 23 ottobre monsignor Yunan Tombe Trille, vescovo di El Obeid e presidente della Conferenza episcopale del Sudan e del Sudan del Sud, aveva espresso i suoi timori, motivandoli, in una intervista rilasciata all’agenzia Fides: «la gente – ha spiegato – è divisa tra chi vuole che il governo di transizione con ministri civili vada avanti, e non vengano traditi i principi delle manifestazioni di oltre due anni fa (le proteste popolari che hanno preceduto il golpe militare del 2019, n.d.A.); e quanti, invece, sostengono la totale presa del potere da parte dei militari che, secondo loro, sono gli unici a poter risolvere la profonda crisi politica e assicurare il pane. Da tempo non ci sono incontri tra civili e militari al governo e possiamo dire che l’esecutivo al momento non è operativo. Nel frattempo i crimini hanno raggiunto un livello mai così alto nella storia, forse proprio per la fame che tanta gente sta sperimentando. Naturalmente dietro a quelle fette di popolazione che chiedono il colpo di stato e che il potere torni completamente nelle mani dei militari, vi sono gruppi di pressione legati ai circoli dell’esercito».

Monsignor Trille parla di fame e povertà: «la vita al momento in Sudan è molto dura – dice – stiamo sopravvivendo per miracolo. Tutto è molto caro, i trasporti, il cibo, la gente non ha pane». Le tensioni tribali aggravano i problemi. Dal 13 ottobre nella capitale Khartum le scuole hanno ridotto a quattro i giorni di frequenza settimanale e alle ore del mattino le lezioni perché gli istituti scolastici non sono in grado di assicurare i pasti agli allievi. L’etnia Beja da settimane blocca le strade nell’Est del Paese e i porti sul mar Rosso per protesta contro la marginalità politica e le difficoltà economiche in cui versa. Una delle conseguenze è la scarsità di generi di prima necessità, come la farina, e il loro costo crescente.

«Non dimentichiamo – ha precisato nell’intervista monsignor Trille – che al-Bashir continua a manovrare dietro le quinte anche perché i suoi sono parte della coalizione di governo. È molto difficile prevedere cosa succederà nell’immediato futuro e non voglio ripetere quello che ho detto tante volte: non credo alle loro promesse. È possibile che si arrivi a un nuovo colpo di stato per mano dei militari. Non ho mai dato credito alle promesse di chi ci ha governato negli ultimi 60 anni perché se ci voltiamo a guardare, vediamo che ci hanno creato solo tanti problemi». E ha aggiunto: «è una situazione insostenibile per la popolazione e gli aiuti della comunità internazionale arrivano solo ad alcuni, mentre moltissimi ne restano privi».

Quest’ultima frase sintetizza e racchiude in sé il destino del Sudan, mai neanche per un momento in pace da quando nel 1956 è diventato indipendente. Monsignor Trille non dice, ma intende che gli aiuti della cooperazione internazionale finiscono nelle mani dei clan e delle etnie con più potere, con più cariche di governo e seggi in parlamento, che li distribuiscono e ne dispongono a discrezione. Lo stesso succede con le risorse naturali, con i proventi dell’esportazione del petrolio: enormi prima che la secessione dei territori del Sud nel 2011 privasse il Paese dei tre quarti dei giacimenti, ma tuttora consistenti.

Il 16 ottobre le strade della capitale si sono riempite di dimostranti che vogliono tutto il potere all’esercito. Il 21 ottobre hanno manifestato gruppi e movimenti che sostengono un governo di civili. I militari accusano i civili di pensare solo alle “poltrone”. I leader civili parlano di democrazia tradita. Ma la situazione è molto più complessa. Fratture esistono in entrambi i fronti. Il Sudan ha da 80 a 100 partiti politici. Coalizioni, alleanze si formano e disfano. Soprattutto, quasi nessuno, al di là dei proclami e delle dichiarazioni di intenti ufficiali, si preoccupa del bene comune, di fatto neanche lo concepisce. In Sudan il tribalismo si manifesta infatti in una delle sue forme più esasperate per la concomitanza di tre fattori divisivi.

Il primo è la coesistenza sempre particolarmente difficile di etnie dedite alla pastorizia transumante e ad attività agricole. Il secondo fattore è la popolazione islamica che si considera di origine araba, superiore agli africani autoctoni e che con il presidente al Bashir ha avviato un progetto di arabizzazione del paese. Ne è derivata la guerra del Darfur, combattuta dal 2003 al 2009 (ma l’accordo di pace finale, e si spera definitivo, risale all’agosto del 2020), costata, si stima, da 200 a 450mila morti e circa 2 milioni tra rifugiati e sfollati. Responsabile di massacri e infinite sofferenze inflitte alle popolazioni agricole africane, sebbene di fede islamica, al Bashir nel 2008 è stato il primo capo di stato a essere oggetto di un mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte penale internazionale. È accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il terzo fattore è la religione. In un Paese dominato da una leadership musulmana, a farne le spese sono state le etnie cristiane, concentrate nel Sud, perseguitate per decenni, con tanta più ferocia dopo la scoperta dei giacimenti di petrolio nel Centro-sud del Sudan. È terminata nel 2006 con un bilancio di tre milioni di morti e quattro milioni di profughi. L’accordo comprensivo di pace prevedeva un referendum popolare nel Sud per decidere tra autonomia e indipendenza. Ha vinto l’indipendenza e nel 2011 è nato il Sudan del Sud.

In quel che resta del Sudan vivono oggi circa 1,5 milioni di cristiani su una popolazione di quasi 43 milioni. «Posso dire – così conclude monsignor Trille – che per la Chiesa sperimentiamo un tempo di relativa calma, una sensazione di riposo dopo anni di attività decisamente opposte a noi, chiudevano chiese, ci toglievano gli edifici, non ci permettevano di operare. Per come la penso io, l’atteggiamento nei confronti della Chiesa non è molto cambiato se non nelle parole: le parole sono più dolci, ma voglio dire che, nonostante la maggiore tranquillità, non possiamo parlare di vero cambiamento».