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Sudan, la guerra ad oltranza dimenticata più grave del mondo

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In Sudan la guerra scoppiata due anni fa ha causato la crisi umanitaria più grave del mondo e degli ultimi decenni. Entrambi i generali, che hanno aperto le ostilità, sono determinati a combattere a oltranza, fino alla totale sconfitta dell’avversario. 

Esteri 26_04_2025

In Sudan la guerra scoppiata due anni fa ha causato la crisi umanitaria più grave del mondo e degli ultimi decenni. 30 milioni di persone su una popolazione totale di 50 milioni hanno assoluto bisogno di aiuto, patiscono stenti e fame. I più disperati sono gli oltre 12 milioni di sfollati che hanno perso tutto – casa, beni materiali, mezzi di sostentamento… – spesso in fuga dopo aver già vissuto settimane e mesi di tribolazioni, molti costretti a spostarsi più di una volta, mano a mano che i combattimenti hanno coinvolto nuovi territori, estendendosi a quelli in cui avevano trovato rifugio.

Le ostilità sono state aperte nell’aprile del 2023 da due generali, autori del colpo di stato con cui avevano preso il potere nel 2021, fino ad allora alleati: Abdel  Fattah al-Burhan, capo delle forze armate e di fatto capo dello Stato, e Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, fino a quel momento suo vice. Al-Burhan ha ai suoi ordini oltre 120mila militari. Dagalo è il capo delle Forze di supporto rapido (RSF), un organismo paramilitare che conta almeno 100.000 uomini. Ne fanno parte i Janjaweed, i diavoli a cavallo, che tra il 2003 e il 2008 nella provincia del Darfur fecero strage delle popolazioni di origine non araba, armati dall’allora presidente Omar al Bashir contro il quale per questo la Corte penale internazionale nel 2009 emise un peraltro disatteso mandato internazionale di arresto.

Entrambi i generali sono determinati a combattere a oltranza, fino alla totale sconfitta dell’avversario, per rimanere soli alla guida del paese. Lo fanno del tutto indifferenti alle conseguenze sulla popolazione. La rete idrica, quella elettrica e altre infrastrutture hanno subito danni enormi a causa dei bombardamenti. Circa il 70-80% degli ospedali non sono più operativi o perché sono stati danneggiati irreparabilmente oppure perché, anche se potrebbero fornire ancora dei servizi, mancano di medicinali, strumentazione, personale, corrente elettrica. Entrambi hanno più volte negato l’apertura di corridoi umanitari per portare soccorsi e per trarre in salvo le comunità intrappolate in aree pericolose. Hanno rifiutato di sospendere i combattimenti persino quando si è trattato di trasferire dalla capitale Khartum, dove la guerra è iniziata, alcune centinaia di bambini abbandonati in un orfanotrofio dove stavano morendo di fame e per mancanza di cure. Entrambi, anzi, usano la fame come arma di guerra negando ai convogli umanitari stranieri il permesso di raggiungere i territori controllati dal nemico e lasciando poi, una volta autorizzati a procedere, che vengano razziati da militari e bande armate.

Le popolazioni del Darfur sono quelle più colpite. Lì i civili non soltanto, come tutti, sono esposti al fuoco incrociato, ai bombardamenti, e soffrono per mancanza di cibo, infrastrutture e servizi: gli effetti collaterali di ogni guerra. Come all’epoca dei Janjaweed, quelli che appartengono alle etnie di origine africana sono attaccati deliberatamente dalle RSF con un intento di sterminio che merita loro, oltre all’accusa di compiere crimini di guerra rivolta anche all’esercito governativo, quella di genocidio e pulizia etnica. È nel Darfur che delle città sono state poste sotto assedio e poi devastate, che la violenza sessuale è diventata sistematica, che si sono verificati i peggiori massacri di civili.

Ed è lì, nel Darfur settentrionale, che pochi giorni or sono è successo l’inimmaginabile, proprio mentre a livello internazionale si sperava di convincere i contendenti ad avviare delle trattative e concordare almeno un cessate il fuoco. A partire dal 11 aprile le RSF hanno attaccato Zamzam Camp, un campo profughi creato nel 2004 che adesso ospita i civili, in gran parte donne e bambini, fuggiti dalla vicina al-Fasher, assediata per mesi nel 2024 dalle RSF, e dai territori circostanti. Al momento dell’attacco nel campo si trovavano circa 700mila persone in condizioni di estrema fragilità a causa della malnutrizione acuta, delle pessime condizioni abitative e igieniche, dell’insufficiente assistenza sanitaria dovute alle restrizioni imposte ai soccorsi, spesso bloccati per giorni e settimane. Medici senza frontiere aveva denunciato un elevato tasso di mortalità specie tra i bambini: almeno un decesso ogni due ore.

Su questa umanità sofferente e disperata, del tutto inerme, si sono avventate le RSF, che già a febbraio aveva compiuto una irruzione nel campo provocando numerose vittime. Adesso i morti sono centinaia e altrettanti i feriti. Il danno ulteriore è che centinaia di migliaia di persone – si stima 400mila – sono fuggite da Zamzam, ormai in mano ai paramilitari, e sono prive anche di quel poco che ancora le teneva in vita, i più forti in cerca di aiuto anche a decine di chilometri da al-Fasher, percorsi a piedi portando quel che restava dei loro averi. Molti sono arrivati gravemente disidratati a Tawila, una città lontana 70 chilometri dove c’è un presidio di Medici senza frontiere. Dei bambini sono morti di sete durante il viaggio. Uno dei superstiti ha raccontato che quando i bombardamenti sono incominciati lui e i suoi vicini hanno cercato e radunato le persone più anziane e con loro sono scappati: «I bombardamenti sono stati intensi – ha detto ai suoi soccorritori – la gente ha incominciato a correre, a sud, a est, a ovest. Usavano ogni tipo di armi pesanti e i  bombardamenti erano così intensi che non riuscivamo nemmeno a parlarci. Andavamo a piedi: era faticoso e difficile. Facevamo delle soste per sederci e a volte la gente si accasciava a terra».

Il 13 aprile il campo era nelle mani delle RSF. Il 15 aprile si è conclusa con un niente di fatto una conferenza convocata a Londra da Regno Unito, Unione Africa e Unione Europea per costituire un gruppo di contatto incaricato di mediare tra le parti. I rappresentanti dei due contendenti non si erano neanche presentati. Lo stesso giorno il leader delle RSF, il generale Dagalo, ha annunciato di aver costituito un governo alternativo a quello in carica. «Stiamo costruendo l’unico futuro realistico per il Sudan» ha detto e ha assicurato – ma si può immaginare quanto poco credibile sia apparsa questa dichiarazione – che il suo è «un governo di pace e unità, il vero volto del Sudan».