Sudan e Centrafrica, le frontiere della violenza
Centrafrica e Sud Sudan sono, attualmente, le due peggiori crisi militari e umanitarie dell'Africa nera. Due tragedie accomunate da alcuni aspetti. Oltre al fatto che, in entrambi, si è raggiunto un accordo di cessate il fuoco negli stessi giorni, in tutti e due i Paesi si registrano paurosi livelli di violenza e sono causati da tensioni religiose e tribali.
Le due crisi africane al momento più preoccupanti – nella Repubblica Centrafricana e in Sud Sudan – hanno registrato entrambe, e quasi nelle stesse ore, degli sviluppi finalmente positivi. Il 21 gennaio nella Repubblica Centrafricana, RCA, teatro di un cruento conflitto in corso da mesi che vede protagonisti islamici e cristiani, il parlamento ha eletto capo dello stato per tutto il prossimo periodo di transizione Catherine Samba-Panza, già sindaco della capitale Bangui. Esce così di scena, costretto alle dimissioni nei giorni precedenti, Michael Djotodia, il leader autoproclamatosi presidente dopo aver guidato il colpo di stato della coalizione Seleka che nel marzo del 2013 ha destituito e costretto all’esilio in Camerun il presidente François Bozize. Il 23 gennaio il nuovo capo di stato, nel prestare giuramento di fronte ai magistrati della Corte costituzionale, si è impegnata solennemente a “preservare la pace e l’unità nazionale senza alcuna considerazione etnica, religiosa, regionale o confessionale”.
Nello stesso giorno, in serata, i rappresentanti del presidente del Sud Sudan Salva Kiir e dell’ex vice presidente Riek Machar, i due leader rispettivamente di etnia Dinka e Nuer responsabili di una crisi politica degenerata lo scorso dicembre in conflitto armato, hanno firmato un accordo di cessate-il-fuoco. È successo ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia e sede dell’Unione Africa, dove le due delegazioni erano riunite dal 3 gennaio con la mediazione dell’Igad, Autorità governativa per lo sviluppo, un organismo regionale costituito da sette paesi dell’Africa orientale. L’accordo raggiunto, dopo che per giorni tensioni crescenti avevano fatto disperare della possibilità di un’intesa, prevede che entro 24 ore tutti i contendenti depongano le armi e pone inoltre le premesse per dirimere la delicata questione delle alte cariche politiche e degli ufficiali dell’esercito legati a Machar arrestati con l’accusa di aver tentato il 15 dicembre scorso un colpo di stato ai danni del presidente Kiir.
Ad accomunare le due crisi sono livelli di violenza paurosi. Le milizie Seleka composte in prevalenza da stranieri di religione islamica, originari del Ciad e del Sudan, hanno per mesi seviziato, torturato, ucciso, violentato la popolazione cristiana, risparmiando i musulmani che nella RCA sono una minoranza di circa il 15%. Hanno inoltre devastato intere città infierendo in particolare su chiese e strutture cristiane, inclusi gli ospedali e le scuole. Poi, qualche mese fa, i cristiani hanno incominciando a organizzare dei gruppi di autodifesa, gli Anti-balaka (anti-machete), che inizialmente si sono limitati a proteggere i luoghi di culto. Ben presto però, vista l’incapacità delle forze di sicurezza locali e dei militari francesi e africani chiamati ad affiancare l’esercito centrafricano di neutralizzare i combattenti Seleka, passati nel frattempo da circa 3.500 a 20.000, hanno iniziato una caccia all’uomo altrettanto feroce di cui molti islamici senza colpa hanno fatto le spese. I morti si contano a migliaia, gli sfollati sono oltre un milione su una popolazione di 4,5 milioni.
In Sud Sudan il conflitto in poco più di un mese ha provocato migliaia di vittime, forse più di 10.000, e circa mezzo milione di sfollati. Alcune città contese dalle opposte milizie, quelle fedeli al presidente Kiir e quelle schierate con Machar, sono state letteralmente rase al suolo. Lì la guerra ha avuto origine dal fatto che i Dinka, l’etnia più forte al momento dell’indipendenza dal Sudan, nel 2011, non hanno resistito alla tentazione di approfittarne e hanno invaso le istituzioni politiche creando crescente malcontento tra le altre etnie: prima fra tutte quella numericamente importante dei Nuer. La crisi politica degenerata in guerra è iniziata quando Machar la scorsa estate ha annunciato di volersi candidare alle prossime elezioni presidenziali. Kiir ha risposto destituendolo dalla carica. Ai militari schierati con uno o l’altro dei contendenti si sono subito aggiunti decine di migliaia di civili armati: quelli Nuer sono stati battezzati Armata Bianca.
Un altro elemento in comune è il fatto che molti osservatori abbiano voluto negare che lo scontro avesse a che fare con divisioni etniche e religiose. Ancora adesso c’è chi continua a definire quanto accade nei due paesi “una lotta per il potere” ai vertici politici, con cui religione ed etnia non hanno nulla a che vedere. Monsignor Dieudonné Nzapalainga e l’imam Omar Kobine Layama, entrambi a Parigi per chiedere aiuto alla comunità internazionale, a proposito di quanto succede in RCA suggerivano il 23 gennaio l’espressione “guerra con elementi religiosi” piuttosto che “conflitto interconfessionale”.
Eppure il terzo elemento che accomuna le due situazioni, dopo l’insediamento del presidente Samba-Panza in RCA e la firma del cessate-il-fuoco in Sud Sudan, è l’estrema cautela nel manifestare ottimismo che deriva proprio dalla generale preoccupazione che, dopo averlo evocato, non si riesca a dominare il demone del tribalismo, associato in un caso alla diversa fede, e che la caccia all’uomo continui. Per il momento infatti in entrambi i paesi ancora si combatte e si teme un nuovo genocidio.