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Sud sudanesi in fuga da una guerra all'altra

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Profughi fuggiti dalla guerra nel Sud Sudan e rifugiatisi nel Sudan, si sono ritrovati intrappolati nella guerra civile scoppiata nel Nord. Tornati in patria rischiano di rimanere coinvolti in una nuova guerra civile del Sud.

Esteri 29_04_2025
Rimpatrio dei profughi dal Nord al Sud Sudan (La Presse)

In Sudan due anni di guerra hanno provocato la peggiore crisi umanitaria del pianeta. 26 milioni di persone hanno bisogno di aiuto, per metà delle quali essere soccorse è diventata questione di vita o di morte perché mancano di tutto. Sono i profughi, in gran parte donne e bambini, costretti a fuggire per allontanarsi dai territori in cui combattono gli eserciti dei due generali che hanno scatenato il conflitto: Abdel  Fattah al-Burhan, capo delle forze armate e di fatto capo dello Stato, e Mohamed Hamdan Dagalo, fino all’aprile del 2023 suo vice. Si stima che gli sfollati siano ormai 8,6 milioni e circa 4,4 milioni i rifugiati nei paesi vicini. Soccorrerli è estremamente difficile, e più di una volta si è rivelato impossibile.

Non tutti gli sfollati però sono sudanesi. Sarah Williams, per esempio, è una rifugiata, proveniente dal vicino Sudan del Sud. È fuggita dopo che nel suo paese è scoppiata la guerra nel 2013. Aveva sperato di essere salva, aveva trovato lavoro come collaboratrice domestica presso una famiglia di ceto medio della capitale, Khartum. Con lo scoppio della guerra ha perso il lavoro e si è aggiunta al numero crescente di sfollati. Sarah è uno dei 2,5 milioni di sud sudanesi che a causa della guerra hanno chiesto asilo nei paesi vicini, circa 800mila dei quali in Sudan. Il paradosso è che hanno così bisogno di aiuto e così tanta è la loro disperazione da indurli a cercare scampo perfino nel paese, il Sudan, del quale hanno fatto parte e dal quale si sono resi autonomi nel 2011 dopo essere stati spietatamente perseguitati per decenni – perché cristiani e di origine africana – dalle popolazioni di origine araba e di fede islamica al potere.

L’indipendenza fu il risultato di un referendum, previsto da un precedente accordo di pace siglato nel 2005, con il quale quasi all’unanimità i sud sudanesi scelsero la secessione. Il 9 luglio 2011 nasceva il Sudan del Sud. Il paese era in macerie, ma poteva contare sull’illimitato sostegno internazionale in termini finanziari e si ritrovava proprietario di tre quarti dei giacimenti di petrolio sudanesi in parte già sfruttati e quindi in grado di produrre introiti miliardari. Ma, proprio per questo, corruzione e tribalismo hanno prevalso. Le cariche politiche e amministrative erano state spartite e in gran parte assegnate ai Dinka e ai Nuer, le due etnie più grandi. Ma il presidente dinka, Salva Kiir, all’inizio del 2013, decise di accentrare ulteriormente il potere nelle mani della propria etnia e i Nuer reagirono. Riek Machar, un nuer che deteneva la carica di vicepresidente,  denunciò il piano di accentramento e fu accusato a sua volta di aver tentato un colpo di Stato. Iniziava così, dopo due anni soltanto di pace, uno scontro politico che nel volgere di poche settimane si estese all’esercito e alla popolazione, facilmente istigata alla violenza facendo leva sulla conflittualità tribale. La guerra fu caratterizzata da toni da pulizia etnica e da episodi di violenza raccapriccianti.

Nonostante gli accordi di pace raggiunti del 2018, le tensioni tra Dinka e Nuer sono continuate, altissime tra le fila dell’esercito. Da allora momenti di speranza in una composizione definitiva delle ostilità si alternano ad altri in cui la pace appare lontana. Inoltre i tanti gruppi armati a base etnica formatisi dopo il 2013 non si sono sciolti e molti hanno continuato a combattere. Istigare allo scontro soffiando sul fuoco  dell’odio e dell’ostilità tra le etnie è facile e molti leader africani vi ricorrono per ottenere seguito e consensi. Poi però rappacificarle diventa molto difficile. Tuttavia decine di migliaia di sud sudanesi nel corso degli anni sono tornati a casa e con lo scoppio della guerra in Sudan il flusso di rimpatri è aumentato. Si stima che dal 2023 siano già rientrati nel Sudan del Sud circa 300mila rifugiati e con loro più di 500mila sudanesi.

Ma potrebbero essere caduti dalla padella alla brace. Da qualche mese infatti le tensioni tra le forze politiche sud sudanesi si sono accentuate. A inizio marzo una milizia alleata con Riek Machar, la White Army, si è scontrata con l’esercito governativo e ne ha invaso una caserma. Sono seguiti altri atti ostili che hanno rimesso in discussione l’unità dell’esercito. Il 26 marzo il vicepresidente e diversi suoi collaboratori sono stati arrestati con l’accusa di aver fomentato una ribellione. Le già incerte prospettive di pace e stabilità sono diventate quanto mai remote. Gli interventi finora tentati dall’Unione Africana e da alcuni paesi non africani non hanno dato risultati. Nicholas Haysom, capo della missione di peacekeeping Onu in Sudan del Sud, Unmiss, afferma che il paese è “sull’orlo di un ritorno alla guerra civile su vasta scala” che potrebbe diventare “una guerra per procura nella regione”.

Un appello a onorare l’eredità di Papa Francesco, rivolto ai leader rivali, arriva dal rappresentante diplomatico del Vaticano presso il paese, monsignor Séamus Patrick Horgan. Ricordando quanto il Pontefice abbia amato il Sudan del Sud, che ha visitato nel 2023, e che posto speciale il paese avesse nel suo cuore, monsignor Horgan ha esortato al dialogo dicendosi sconfortato per le allarmanti notizie che continuano ad arrivare da molte parti del paese.

Per la pace la Chiesa cattolica lo scorso venerdì ha celebrato una messa, officiata da monsignor Horgan, nella cattedrale di Santa Teresa, a Juba, la capitale. Alla funzione ha partecipato il presidente Salva Kiir che alla fine della cerimonia ha preso la parola: “quale icona di pace, tolleranza, perdono, riconciliazione, armonia e inclusività – ha detto – il messaggio di Papa Francesco ha trovato eco nelle persone di tutte le fedi in tutto il mondo”. Non in lui, però, che non ha colto l’occasione per dirsi, almeno a parole, impegnato per la pace, la riconciliazione e il dialogo nel suo paese. Erano presenti alla cerimonia ambasciatori, leader religiosi di altre confessioni cristiane, rappresentanti della comunità musulmana e tutti lo hanno rilevato.