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la proposta di legge

Stupri, la castrazione chimica non risolve il problema

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Si torna a parlare di castrazione chimica con un odg leghista in Parlamento. Ma non è una soluzione moralmente lecita. Per due motivi: lo stupro nasce quasi sempre da una pulsione sadica, di odio, non sessuale. Il blocco androgenico non solo non sarebbe adeguato per il reo, ma potrebbe essere anche dannoso. 

Vita e bioetica 20_09_2024

Durante la discussione sul Ddl sicurezza, il Governo ha accolto l’ordine del giorno del leghista Igor Iezzi per istituire una commissione o aprire un tavolo tecnico che possa valutare, nel rispetto dei principi costituzionali, la possibilità che il condannato per reati inerenti alla violenza sessuale aderisca, se lo vuole, a percorsi di assistenza sanitaria, sia di carattere farmacologico che psichiatrico. Nell’assistenza sanitaria viene contemplata anche l’opzione, sempre liberamente eleggibile dal condannato, di sottoporsi al blocco androgenico, ossia alla cosiddetta “castrazione chimica”. Questa soluzione è stata proposta in vista del reinserimento del reo nella società, dopo aver scontato la propria pena, e dunque in vista di una possibile recidiva.

In questo caso, dal punto di vista giuridico, non stiamo parlando di una pena. Infatti una delle caratteristiche necessarie della pena è la sua obbligatorietà, la sua coattività. Laddove invece una decisione è lasciata al libero arbitrio della persona, quindi è meramente suggerita, non si può parlare di pena.

Ciò detto domandiamoci: dal punto di vista morale, è lecita l’opzione “castrazione chimica” per i colpevoli di violenza sessuale? La risposta è negativa. Come accennato, si ricorrerebbe alla castrazione chimica per evitare che il colpevole, tornato in libertà, torni anche a violentare. Ma, come spiegato da queste stesse colonne qualche anno fa, dalla dottoressa Silvana De Mari, medico specializzata in psicoterapia cognitiva, «lo stupro solo in parte nasce da una pulsione sessuale. Nella stragrande maggioranza dei casi nasce da una pulsione sadica. La pulsione sadica, ripeto, non è minimamente diminuita dalla castrazione chimica. […] Lo stupro non risponde a una pulsione sessuale: la pulsione sessuale porta alla masturbazione. Lo stupro risponde a una forma di odio: odio verso le donne, odio verso un’etnia diversa dalla propria, odio verso una classe sociale diversa dalla propria». Dunque, in vista dello scopo prefissato – evitare altri stupri – il mezzo appare non adeguato.

Non solo non è adeguato, ma può essere dannoso per il reo dato che si altera l’equilibrio endocrino. Le conseguenze possono essere la depressione, il tentato suicidio, complessi di inferiorità che possono portare anche a nevrosi, senescenza precoce, instabilità emotiva, somatizzazioni.

Ma ammettiamo il caso che un certo stupro sia stato commesso non per odio, bensì perché il violentatore è un dipendente sessuale. Quindi lo stupro sarebbe stato determinato da una pulsione sessuale soverchiante. Eliminare la pulsione sessuale con la castrazione eliminerebbe il sintomo – la dipendenza – ma non la causa. E le cause delle dipendenze, per la maggior parte dei casi, hanno natura psichica.

Che cosa dunque accadrebbe con la castrazione chimica in questo caso? Accadrebbe che, venuta meno la pulsione, verrebbe quasi sicuramente meno anche l’interesse da parte del reo di un percorso di assistenza psicologica per individuare la propria ferita interiore che ha generato la dipendenza e gli strumenti utili a sanare questa ferita, posto ovviamente che rimanga intatto, dopo questo intervento, l’equilibrio psicologico della persona. È il tormento della dipendenza la benzina per chiedere aiuto e per impegnarsi ad uscire da questa condizione.

Inoltre, mancando lo stimolo a superarsi, il soggetto non ricadrebbe nella dipendenza e dunque eventualmente in altri atti di violenza sessuale non perché è finalmente diventato padrone di se stesso, non perché ha riconquistato la propria libertà, il dominio sulle proprie passioni, ma semplicemente perché ha accettato la castrazione, ha voluto non essere più libero, almeno relativamente a questo ambito. La castrazione cancellerebbe dunque la possibilità di riappropriarsi della propria libertà interiore.

Non solo, ma, eliminando la pulsione, non avremmo più la prova del nove. Il dipendente dal sesso, come dalla droga o dai giochi di azzardo, comprende che la psicoterapia ha finalmente imboccato la strada giusta quando la pulsione si fa più debole, finchè scompare. Eliminare quindi la pulsione priverebbe del riscontro necessario per individuare le cause e i mezzi adeguati per uscire dalla dipendenza. Per paradosso il violentatore rimarrebbe un dipendente sessuale senza sintomi, un portatore a vita di quella ferita interiore che, in modo inevitabile, continuerebbe a sanguinare e che, probabilmente, esigerebbe altri modi, sempre lesivi per la persona, per manifestarsi. E se torniamo alla proposta di Iezzi, ciò entrerebbe in contraddizione anche con lo scopo rieducativo della pena: la mancanza di un percorso psicologico, infatti, non aiuterebbe la pena della carcerazione ad esplicare il proprio fine pedagogico.