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TERRORISMO

Strage a Mumbai, l'ombra di al-Qa'ida

Il nodo è il Kashmir: da Osama Bin Laden in poi, gli ultrafondamentalisti colpiscono ogni volta che India e Pakistan discutono soluzioni pacifiche.

Attualità 14_07_2011
attentato a mumbay
Il ritorno del terrorismo a Mumbai, la città indiana chiamata un tempo Bombay, mi colpisce due volte: perché sono stato diverse volte in India per studiare i gruppi estremisti presenti nella zona e perché conosco bene il quartiere di Opera House, uno dei centri dell'attacco che ha colpito la megalopoli per la terza volta in otto anni.

Sulla matrice degli attentati
ho pochi dubbi: le sigle usate dai terroristi cambiano continuamente ma si tratta sempre del network ispirato da al-Qa'ida in India, che è nato in Kashmir e a Mumbai conta su centrali mai davvero smantellate. Lo schema si ripete: ogni volta che i governi indiano e pakistano sembrano pronti a discutere una soluzione pacifica della disputa sul Kashmir, come sta avvenendo negli ultimi mesi, il terrorismo colpisce.

Le organizzazioni terroristiche
dell’ultra-fondamentalismo islamico nel Kashmir sono fra le più feroci: dal 1989 a oggi hanno fatto sessantamila morti, un record secondo solo a quello algerino. Ma questa ferocia non è cieca, e quasi sempre ha scelto i momenti giusti per colpire, ottenendo finora lo scopo di far puntualmente deragliare il treno della pace ogni volta che esso sembra ripartire. Anche il Kashmir conferma così la tesi secondo cui il terrorismo non è affatto “irrazionale”: persegue scopi politici precisi, e non di rado li ottiene.

Il problema del Kashmir è antico. La “partizione” della penisola indiana fra un’India indù e un Pakistan musulmano inventata dagli inglesi nel 1947 lascia irrisolto il problema dei regni formalmente indipendenti delle zone di frontiera, i cui rajah dovrebbero decidere con quale dei due paesi federarsi. Nel Kashmir gli abitanti sono in maggioranza musulmani sunniti, mentre la famiglia reale è induista. Il rajah fa prevalere la sua religione su quella dei sudditi, e nel 1947 dichiara di volersi unire all’India. Ne nasce una guerra fra India e Pakistan, conclusa da un cessate il fuoco negoziato nel 1949 dalle Nazioni Unite, le quali fermano le truppe su una “linea di controllo provvisoria”, che lascia un terzo del Kashmir al Pakistan e due terzi all’India, e chiedono che il futuro del Kashmir sia deciso da un referendum che non si terrà mai. Seguono invece altre due guerre nel 1965 e nel 1971, e una tregua firmata a Simla nel 1972. La tregua tiene per quasi vent’anni, anche perché nel frattempo su una parte del Kashmir avanza minacciose rivendicazioni territoriali la Cina, e India e Pakistan sanno che nuovi conflitti darebbero occasioni a Pechino di intervenire.

Alla fine degli anni Ottanta, tuttavia, Osama bin Laden (1957-2011) decide personalmente di aprire un nuovo fronte in Kashmir dopo i successi in Afghanistan. Negli anni 1990 comincia una vasta campagna terroristica al cui servizio si pongono migliaia di volontari che Bin Laden infiltra nel paese dall’estero. Bin Laden, inoltre, mette in opera un’altra strategia: sviluppa legami strettissimi con la malavita organizzata indiana. Nel 1993 a Mumbai un attentato fa 250 morti ed è interpretato come un avvertimento alla polizia, che si interessa un po’ troppo ai suoi affari, di uno dei grandi padrini della mafia indiana, Abu Salem, marito di una nota attrice di Bollywood – la Hollywood di Bombay –, Monica Bedi. Non si trovano prove, ma qualche anno dopo Abu Salem e signora scappano prima in Kenya e poi a Lisbona dove saranno catturati solo nel 2005. Hanno con sé documenti secondo cui uno dei principali dirigenti di al-Qa'ida nella regione, Abu Hufeza, aveva fornito esplosivo e uomini ad Abu Salem per il sanguinoso attacco del 1993, approvato personalmente da Osama bin Laden.

Come in altri Paesi, al-Qa'ida conta sul crimine organizzato – con cui è disposta a collaborare in molti modi – per un appoggio logistico prezioso. La radice immediata del terrorismo in India è dunque il problema del Kashmir. Si tratta di un problema senza soluzioni facili, ma il rapporto del 1950 della commissione ONU guidata dal giurista australiano sir Owen Dixon (1886-1972) metteva già in luce un fatto innegabile: ogni soluzione applicata a tutto il Kashmir, referendum compreso, non condurrà alla pace, perché il Kashmir è diviso fra una zona musulmana, una indù e una buddhista, senza contare le divisioni linguistiche.

La “terza via” di chi sogna un Kashmir indipendente è politicamente e socialmente irrealizzabile – terrebbe insieme in uno stesso Stato musulmani e indù che si sono scannati per decenni – ma una razionalizzazione su base linguistica e religiosa della “linea di controllo” può portare l’India, il Pakistan e la maggioranza dei kashmiri stanchi di guerre e di morti ad accettare la frontiera “provvisoria” del 1949 come definitiva. È proprio perché questa soluzione, che appare oggi possibile, non si realizzi che al-Qa'ida fa strage di civili in India e minaccia attentati anche in Pakistan.

Un’ultima considerazione, forse poco “politicamente corretta”, è obbligatoria. Benedetto XVI ha ricordato ripetutamente di recente che il dialogo interreligioso sul piano strettamente teologico rischia di lasciare il tempo che trova, mentre è urgente che le grandi religioni s’incontrino sul terreno culturale e morale dei diritti umani e della condanna senza riserve della violenza e del terrorismo. Troppo spesso le autorità islamiche hanno condannato il terrorismo in via di principio, dichiarando però legittimi gli attentati quando si tratta di “resistenza” contro “occupanti”: gli israeliani in Palestina, gli americani in Iraq, gli occidentali - italiani compresi - in Afghanistan e gli indiani in Kashmir.

A prescindere da ogni considerazione sui singoli scenari locali, il Papa ha ricordato ai musulmani che nessuna causa, anche eventualmente comprensibile, giustifica il terrorismo e le stragi. Solo da una condanna senza se e senza ma di ogni attentato terroristico potrà ripartire la strada di un vero dialogo.