Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Francesco Saverio a cura di Ermes Dovico
AIDS

Stephen Crohn, suicidio di un uomo "immortale"

Immune al virus dell'HIV per un raro difetto genetico, l'attivista gay Stephen Crohn si è tolto la vita a 66 anni. Ha deciso di farla finita, dopo aver assistito alla morte per AIDS di tanti suoi amici "come in una guerra senza fine".

Vita e bioetica 09_10_2013
Stephen Crohn

“Dead man walking” è l’espressione che gli americani usano per indicare i condannati a morte. Persone sì vive, ma di fatto con entrambi i piedi già dentro la fossa. Stephen Crohn, l’artista gay che in tutto il mondo divenne famoso perché immune al virus dell’HIV, forse si sentiva un “dead man walking”. Ne parliamo al passato perché si è tolto la vita a New York lo scorso 23 agosto, a 66 anni, ma i familiari ne hanno dato notizia solo di recente. L’aver contratto il virus a metà degli anni Ottanta avrebbe dovuto essere per lui, come per tutti allora, una condanna a morte, ma un difetto genetico – uno di quei difetti che spingono molti ad eliminare il figlio imperfetto prima che venga alla luce – lo aveva reso immune al virus dell’HIV, il quale non riusciva ad infettare le sue cellule.

Nel 1999 Crohn in un’intervista dichiarò: «È difficile vivere con questo dolore, con questa angoscia continua: ogni anno perdi persone care. Sei, sette. Anche la settimana scorsa: sfoglio il giornale e trovo il necrologio di un amico carissimo. È dura quando l’AIDS si porta via amici così giovani e la cosa va avanti per decenni. Come in una guerra senza fine». Nonostante oggi la ricerca scientifica sia riuscita sostanzialmente a cronicizzare il male e quindi quella guerra infinita a cui accennò Crohn abbia subito sicuramente una battuta d’arresto, evidentemente gli echi di quel conflitto in lui non si erano mai sopiti. Impossibile e da sciocchi aver la pretesa di sondare i reali motivi per cui un uomo vuole farla finita, ma la vicenda di Stephen Crohn ci fa comprendere come siano vere le parole di Gesù allorquando ammoniva: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo […] Temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna» (Mt. 10, 28).

Crohn, per un motivo o per l’altro, era morto dentro perché, sebbene scampato ad un virus letale per il corpo, aveva contratto chissà quale virus mortale dell’anima. Era un “uomo morto che cammina”, graziato dall’AIDS, ma non graziato da un male di vivere che, per ipotesi, aveva le sue radici proprio in quella moria di amici a cui aveva dovuto assistere come un highlander. Un immortale tra decine di mortali. Forse che a distanza di anni ha dovuto scontare la sindrome del sopravvissuto? Forse che si sentiva un condannato a vivere? Forse che il peso di essere un eletto proprio all’interno della comunità gay la quale veniva falcidiata in quegli anni in modo continuo era ormai divenuto oggi insopportabile? Forse vittima anche lui dell’AIDS, ma in altro modo, contagiato dalle lunghe ombre dei cadaveri che questo virus nei decenni passati ha lasciato dietro di sé?

Domande oziose che però ci fanno capire che la strada del suicidio e dell’eutanasia è sempre intrapresa da chi ormai non si sente più vivo dentro e vuole quasi rettificare questa sua angoscia interiore con un gesto esteriore che porti il corpo ad assumere quella stessa condizione mortale che l’anima sta già sperimentando. Allora la storia di Crohn, lui che vinse una lotteria alla rovescia, ci insegna che la depressione e il buio interiore non devono essere assecondati, ma sconfitti con la speranza, virtù non per nulla teologale. Perché puoi avere tutte le fortune di questa terra, essere un supereroe immune da qualsiasi malattia, però se perdi il senso ultimo delle cose e della tua vita, sei affetto da una patologia letale che prima o poi ti porterà alla tomba spirituale.