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FINE VITA

Spagna, se l'eutanasia diventa una pena capitale

Il 23 agosto, nel carcere di Terrassa, Barcellona, un detenuto in carcerazione preventiva, Marin Eugen Sabau, il "pistolero di Tarragona" è stato ucciso con iniezione letale. Eppure in Spagna non c’è la pena di morte. E mai verrebbe eseguita prima ancora del processo. Infatti, non si tratta di un’esecuzione capitale, bensì di un caso clamoroso di eutanasia. 

Editoriali 25_08_2022
Madrid, proteste contro la legge sull'eutanasia

Il 23 agosto, nel carcere di Terrassa, Barcellona, un detenuto in carcerazione preventiva è stato ucciso con iniezione letale. Eppure in Spagna non c’è la pena di morte. E anche nei Paesi in cui si applica la pena capitale, mai viene eseguita prima ancora dell’inizio del processo. Infatti, non si tratta di un’esecuzione capitale, bensì di un caso clamoroso di eutanasia. E di un precedente molto pericoloso.

Il suicida che ha chiesto assistenza per togliersi la vita è l’ex agente della sicurezza Marin Eugen Sabau, 46 anni, di origine rumena, noto alla stampa spagnola con il soprannome di “pistolero di Tarragona”. Infatti, nella città catalana di Tarragona, lo scorso 14 dicembre, decise di porre fine alla sua vita professionale e alla sua esistenza in terra. Licenziato dall’agenzia di sicurezza Securitas, mandò una mail di minacce a colleghi e superiori. Non era la prima volta che lo faceva, ma nel suo ultimo messaggio indicava chiaramente le sue intenzioni: «Non ho altra scelta, farò giustizia con le mie mani. Le lezioni apprese nel sangue non vengono dimenticate presto. La Securitas si ricorderà di me per qualche anno». Indicava i suoi bersagli, responsabili, a suo dire, della sua discriminazione su basi razziali e del licenziamento. «Vaccinerò i boss della Securitas con tre dosi di Glock-Pfizer da 9 millimetri. Non voglio ucciderli, li lascerò fregati» e infine espresse la sua intenzione di finire l’azione con il suo suicidio. Il piano andò abbastanza come lo aveva pensato: entrato nella sede della Securitas, ferì gravemente tre colleghi (senza ucciderli) e poi, nella fuga colpì anche un agente di polizia. Barricatosi in una masseria, venne ferito gravemente dai tiratori scelti delle teste di cuoio e arrestato.

I colpi dei cecchini lo lasciarono letteralmente dimezzato, una gamba amputata, un braccio ferito che muoveva a stento, lesione spinale che provocò la paralisi dalla vita in giù. Sabau chiese per due volte di essere finito: d’altronde era già sua intenzione quella di suicidarsi. Ora, alla disperazione esistenziale si era aggiunta anche quella fisica: tetraplegico, pativa dolori che i medici non erano riusciti a sedare. Madrid aveva approvato, giusto un anno prima, una legge che autorizzava l’eutanasia anche per casi come il suo: «sofferenza grave, cronica e impossibilitante o malattia grave e incurabile, che causa un patimento intollerabile». Il giudice di primo grado gli diede ragione, in appello la sentenza di morte volontaria è stata confermata e fissata inizialmente per il 28 luglio.

Ad opporsi al suicidio di Sabau sono state le sue vittime. Il sindacato della polizia e i legali del poliziotto da lui ferito, oltre a quelli degli ex colleghi della Securitas, hanno fatto ricorso per fermare con decreto ingiuntivo il percorso del suicidio assistito, perché l’accusato fosse prima processato e venissero riconosciuti i danni. Ma il tribunale di Tarragona ha respinto il ricorso, considerando il «prevalente il diritto alla dignità e all’integrità fisica e morale dell’indagato rispetto al diritto alla tutela effettiva dei denuncianti». Successivamente anche la Corte Costituzionale ha sentenziato a favore dell’eutanasia del detenuto in attesa di processo, valutando «l’inesistenza di violazione di un diritto fondamentale suscettibile di protezione». Un ultimo ricorso alla Corte europea per i diritti umani è stato respinto.

I legali di Sabau hanno chiesto che il loro assistito potesse morire in libertà, ma il gip di Tarragona ha ritenuto che il detenuto, seppur invalido, potesse fuggire e quindi ha respinto il ricorso. Alla presenza dei suoi parenti, il “pistolero di Tarragona” si è fatto uccidere. Un’esecuzione capitale, a tutti gli effetti, anche se paradossalmente chiesta dal “condannato”, non dopo un processo e una regolare sentenza, ma con un mero atto amministrativo, eseguito dopo l’assenso di una commissione.

Questa vicenda costituisce un precedente molto pericoloso. L’eutanasia non è stata praticata su un malato terminale, ma su una persona non in pericolo di vita anche se mutilata. Una persona in carcere, dunque neppure in libertà, che ha dimostrato in passato di non essere mentalmente stabile, ha chiesto e ottenuto di essere uccisa. Lo Stato ha valutato che fosse un suo diritto fondamentale, senza porsi troppe domande su quali fossero le condizioni, mentali, fisiche, morali, di chi chiedeva di morire. La fretta con cui il tutto si è svolto, senza neppure attendere il processo è molto inquietante. Parrebbe quasi di sentire il sospiro di sollievo delle autorità spagnole «un carcerato in meno da mantenere, un processo in meno da celebrare, un mutilato in meno da assistere e curare». Mai si sarebbe pensato di assistere anche alla reintroduzione surrettizia di una “pena capitale”, sia pure chiesta dal condannato, senza un regolare processo.

Paradossalmente a perorare la causa della vita sono state le vittime del “pistolero” suicida. Lungi dal chiedere la sua testa, hanno fatto il possibile per salvare il loro carnefice, affinché venisse almeno giudicato, con equo processo e diritto alla difesa legale. Solo per tornaconto personale, per ottenere i risarcimenti per le ferite riportate? Sarebbe più che comprensibile per chi si è visto rovinare la vita da un ex collega. Ma la giustizia non si esaurisce al risarcimento: è anche ricerca della verità, è il riconoscimento ufficiale di un torto subito, è il tentativo di ottenere un pentimento da parte dell’aggressore. Pentimento che non c’è stato, in questo caso. Sabau è morto ingiudicato e, a quanto risulta, non ha mai chiesto perdono per l’attacco.