Sistema Parnasi, tra opacità e giustizia a orologeria
Parlare di giustizia a orologeria è fin troppo facile a proposito dell’inchiesta sullo stadio di Roma e su quello che è già stato ribattezzato “sistema Parnasi” da cui emerge l’opacità nei meccanismi di rappresentanza degli interessi, con lobbies che operano nel torbido e agiscono indisturbate, stante il vuoto normativo in materia.
Parlare di giustizia a orologeria è fin troppo facile a proposito dell’inchiesta sullo stadio di Roma e su quello che è già stato ribattezzato “sistema Parnasi”. Luca Parnasi, imprenditore, e Luca Lanzalone, avvocato e manager molto vicino ai Cinque Stelle, sarebbero le pedine chiave dell’ennesima trama di commistioni pericolose tra economia, affari e politica. Non appena il governo Conte ha iniziato la sua navigazione, c’è stato subito chi ha pensato di rendere quella navigazione tempestosa.
Questo è il commento, forse un po’ semplicistico, che alcuni sostenitori del nuovo esecutivo hanno rilasciato all’indomani delle prime notizie di arresti e indagini. Altri hanno fatto notare come ci sia stata una sincronia perfetta tra lo scoppio dell’ennesimo scandalo riguardante la cosa pubblica e l’imminente inizio del processo per falso a carico del sindaco di Roma Virginia Raggi. Infine c’è anche chi, garantista a oltranza, legge in questa nuova vicenda giudiziaria null’altro che l’ennesima iniziativa di certa magistratura che, non appena la politica trova nuovi equilibri, provvede a ristabilire le gerarchie e a far capire chi comanda davvero nel Paese. Ma sono tutte supposizioni e vanno registrate come tali.
Quello di Roma è in realtà un intrigo pressochè inestricabile che getta una luce assai fosca sull’attuale giunta capitolina e che riattualizza due questioni relative al rapporto tra politica e società e tra politica ed economia. Da una parte c’è il tema del finanziamento pubblico ai partiti, abolito e da alcuni in verità molto rimpianto. Dall’altra c’è l’opacità nei meccanismi di rappresentanza degli interessi, con lobbies che operano nel torbido e agiscono indisturbate, stante il vuoto normativo in materia.
Proprio ieri il Presidente dell’Autorità anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, ha lanciato entrambi gli allarmi: bisogna intervenire e obbligare alla trasparenza tutti i contributori privati che alimentano il flusso di risorse verso i partiti politici e le fondazioni che sostengono la politica; occorre accelerare l’approvazione di una legge seria sulle attività di lobbying, che costringa i cosiddetti “facilitatori”, che agiscono per conto di portatori di interessi, a dichiarare le finalità delle proprie azioni di comunicazione presso i decisori pubblici, indicando gli impegni finanziari e le risorse destinate a quelle attività.
Per quanto riguarda il finanziamento pubblico alla politica, appare evidente che i partiti, a causa della progressiva crisi di delegittimazione popolare e della paurosa contrazione di iscritti e fedelissimi, si sono affidati alle mani (sporche) di faccendieri senza scrupoli che li finanziano in maniera diffusa ed estesa, anche per il tramite di fondazioni o entità simili. Quasi tutti i partiti, a quanto emerge in questi giorni dalle carte di Roma, avrebbero beneficiato di questi contributi privati che inevitabilmente fungono da strumenti di pressione e di ricatto su chi poi decide appalti, incarichi, commesse.
Nella Prima Repubblica c’era la mediazione forte delle segreterie dei partiti, che incassavano e redistribuivano, assicurando un minimo di metodo democratico nelle candidature e nella selezione della classe dirigente. Ora sono i privati a finanziare campagne elettorali e a orientare, in maniera quasi del tutto clientelare e senza alcun filtro, le decisioni di chi poi viene eletto. Si tratta, quindi, di rappresentanti del popolo spesso eterodiretti da centri di potere occulto. Di qui la necessità di imporre, anche a fondazioni, associazioni, onlus e altri soggetti che fungono da supporto a partiti o a singoli politici, di dichiarare alla luce del sole la provenienza delle proprie risorse, vale a dire i nominativi degli autori delle donazioni, affinchè la gente possa regolarsi e comprendere a fondo i legami esistenti tra potere politico e potere economico.
C’è poi la questione, annosa, della mancanza di una legge che disciplini nel nostro Paese l’esistenza delle lobbies. Questa legge in altri Stati, tra cui gli Stati Uniti, esiste da decenni e obbliga i rappresentanti dei portatori di interesse a dichiarare la propria identità, le finalità delle proprie azioni di lobbying, le risorse impiegate in esse, e a registrarsi presso appositi registri. Tutto ciò costringe i decisori istituzionali a varare provvedimenti davvero rispettosi degli interessi di tutti e in maniera trasparente, senza sotterfugi, negoziazioni sottobanco, e senza soprattutto la prevalenza degli interessi più forti e consolidati.
In Italia si è più volte tentato negli ultimi 40 anni di approvare una normativa del genere, ma gli ostacoli, culturali prima ancora che politici, lo hanno sin qui impedito. Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte si è dichiarato molto orientato a stimolare una innovazione legislativa del genere. Ma basterà la sua buona volontà?