Siria: Usa e Turchia si scontrano sul destino dei curdi
La Turchia, dopo lo scadere del suo "ultimatum", intende occupare un territorio nordoccidentale siriano come fascia di sicurezza. E chiede il disarmo delle milizie curde, alleate degli Usa, nel Nordest del Paese. Sulla forniture di armi pesanti a queste ultime, è scontro aperto fra Ankara e Washington.
É scattata l'ora zero nel nord della Siria: alla fine di settembre è scaduto l'ultimatum imposto dalla Turchia agli Stati Uniti per la creazione di una “safe zone” al di là del suo confine meridionale. Si fa sempre più concreta, quindi, la minaccia di Ankara di un intervento militare in territorio siriano.
“La Turchia è pronta a prendere in mano la situazione e ad agire da sola, se ci saranno ulteriori ritardi o rinvii” nel processo di creazione della zona cuscinetto – ha ammonito il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar - “I preparativi sono completi” per un'azione militare nel territorio siriano; “crediamo sia necessario istituire al confine un'area sicura, un corridoio di pace libero da armi pesanti e terroristi”.
Da tempo, Ankara ambisce a controllare il confine con la Siria, attraverso la creazione di una zona cuscinetto che - nel progetto turco - dovrebbe estendersi per circa 30-40 chilometri all'interno del territorio siriano, a est del fiume Eufrate. Già nel gennaio 2018, le forze turche avevano compiuto un passo in questa direzione, occupando il distretto di Afrin con l'operazione “Ramoscello d'Ulivo”. La campagna mirava a “liberare il territorio dal terrorismo” e a impedire che la nascita di uno Stato curdo oltre il confine meridionale della Turchia galvanizzasse i curdi presenti nel Paese.
Pur senza alcun riconoscimento ufficiale, uno Stato curdo è stato proclamato unilateralmente nel marzo 2016 – nel territorio corrispondente alle aree di Afrin, Al-Jazira, Kobane, Tell Abyad e Shahba -. Al momento, si troverebbe sotto il controllo dell'Unità di Protezione popolare curda (Ypg), che Ankara considera parte del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e quindi un gruppo terroristico.
Proprio per affrontare la minaccia di uno Stato curdo ai suoi confini, dunque, la Turchia mira ad ampliare la zona cuscinetto, spingendosi fino a Manbij, attraverso la città di Tel Rifaat. L'obiettivo finale di Erdogan - secondo quanto affermato dal ministro della Difesa - è “porre fine alla presenza del Pkk/Pyd (Partito dell'Unione Democratica curdo) / Ypg (Unità di Protezione popolare curda) nel nord della Siria”, trasformando l'attuale “corridoio del terrore” - così definito proprio dal presidente turco – in un “corridoio di pace”, per il ricollocamento dei circa 3 milioni di sfollati siriani rifugiatisi all'estero, in particolare in Turchia.
Un progetto, quello di Erdogan, che deve però fare i conti sia con il governo siriano – che ha più volte accusato la Turchia di “aver violato l'integrità territoriale” della Siria – sia con gli Stati Uniti, per i quali le Syrian Democratic Forces (Sdf) rappresentano un alleato chiave nella lotta contro lo Stato Islamico. Anche la questione del ricollocamento dei rifugiati siriani ha scatenato l'opposizione del governo siriano, che teme, al pari dei curdi, l'alterazione dell'equilibrio demografico della regione, cuore della comunità curda. Ecco perché il ministro degli Esteri siriano, Walid Muallem, ha sottolineato che si tratterebbe – in ogni caso - di un'operazione da coordinare con Damasco per “garantire la sicurezza del ritorno dei siriani nei territori di origine, evitando che ciò si trasformi in una pulizia etnica in alcune aree specifiche”.
Lo scorso agosto, il progetto della “safe zone” sembrava essersi finalmente concretizzato: Ankara e Washington erano riuscite a raggiungere un accordo in merito alla creazione del “corridoio di pace”, affidando il compito di coordinare le operazioni all'interno dell'area a un Centro operativo congiunto turco-statunitense.
Pur rimanendo da definire alcuni aspetti inerenti l'ampiezza del territorio – Washington ha sempre visto di buon occhio una limitazione della zona a 10 chilometri - e le fasi successive del piano, si era già dato avvio ad alcune fasi dell'accordo, con il ritiro delle Syrian Democratic Forces dalle loro roccaforti nel nord-est della Siria e con le prime operazioni di pattugliamento congiunte turco-statunitensi. Tuttavia, secondo il governo turco, gli Stati Uniti non avrebbero “fatto abbastanza per la realizzazione della zona cuscinetto”. Con questa motivazione, Erdogan ha lanciato un ultimatum a Washington, scaduto alla fine di settembre, minacciando un intervento unilaterale della Turchia nel nord della Siria.
Tuttavia, il vero punto di contrasto che rischia di far saltare l'alleanza tra i due Paesi, sembra piuttosto essere la questione delle armi pesanti che Washington fornisce alle forze curde presenti nel territorio; strumenti necessari, nell'ottica americana, per combattere lo Stato Islamico, tutelando la sicurezza a est del fiume Eufrate e al confine con l'Iraq. Al contrario, Ankara non è disposta a trovare un compromesso sulla richiesta di disarmare le forze curde, soprattutto in un momento in cui le forze governative hanno la meglio nel “Grande Idlib” - l'ultima roccaforte sotto il controllo dell'opposizione, sostenuta proprio dalla Turchia.
A Washington spetta ora decidere dove collocarsi. Se asseconderà la richiesta di Ankara di ritirare tutte le armi pesanti di cui sono in possesso i curdi siriani, dovrà comunque evitare che ciò riduca drasticamente le capacità militari dei curdi: un'ipotesi pericolosa, che creerebbe un vuoto – in particolare a Raqqa e Deir Ezzor – colmabile dallo Stato Islamico. Se, invece, continuerà ad armare i curdi siriani, dovrà far fronte alle decisioni di Ankara, che sembra sempre più convinta di voler avviare un'operazione militare nel nord della Siria per proteggere i propri confini.