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MEDIO ORIENTE

Siria, l'illusione della vittoria risolutiva

I raid aerei sono solo propaganda, se si vuole davvero sconfiggere lo Stato islamico ci vogliono le truppe di terra. Lo continua a ripetere il patriarca caldeo Raphael Sako. E' una considerazione che vale anche per la Russia, oltre che per la Coalizione. I raid russi possono aprire la via all'offensiva di Assad. Ma credere in una vittoria di Damasco è un'illusione. La pace in Siria passa attraverso la sua divisione.

Esteri 08_10_2015
Raid aereo russo

In ogni intervista che rilascia il patriarca caldeo Raphael Sako dice una cosa ben precisa: i raid aerei sono solo propaganda, se si vuole davvero sconfiggere lo Stato islamico ci vogliono le truppe di terra. È un'annotazione che vale la pena di tenere ben presente in queste ore in cui tra incursioni aeree vere, sconfinamenti e chiacchiere tipicamente italiane i cieli sopra l'Iraq sono sempre più affollati. Ma è una prospettiva che ci aiuta a guardare dentro anche a quanto succedendo in queste ore in Siria.

L'intervento russo ha infatti cambiato radicalmente la situazione sul campo, ridando fiato a Bashar al Assad e alle milizie filo-iraniane, da mesi in difficoltà nello scontro con la galassia dell'opposizione siriana, dominata dai qaedisti di Jabat al Nusra. Ieri si è capito bene che l'intervento aereo russo in Siria - a differenza dei raid poco più che simbolici della coalizione che sulla carta avrebbe dovuto combattere l'Isis in Iraq - è finalizzato a un obiettivo militare ben preciso: sostenere l'avanzata verso nord delle forze di terra fedeli a Bashar al Assad. Mosca ha mostrato i muscoli facendo sparare una pioggia di missili anche dalle sue navi sul Mar Caspio. Ma a contare sul serio sono i raid aerei, concentratisi in maniera rigorosa sulle aree di Hama e Idlib, posti dove non ci sono obiettivi dello Stato islamico ma zone controllate dalle altre milizie dell'opposizione ad Assad. Idlib - in particolare - è l'ultima provincia a essere caduta nelle mani degli islamisti di Jabat al Nusra nel marzo scorso, mostrando in quell'occasione tutte le crepe ormai evidenti tra le fila dell'esercito di Damasco.

I russi bombardano dall'alto, ma la strategia è quella di aprire la strada per la riconquista da terra di nuove posizioni da parte delle truppe fedeli ad Assad. Perché riprendere il controllo dell'intera area di Hama e di Idlib è la premessa per non perdere la battaglia più importante e più sanguinosa che da due anni ormai si sta combattendo in Siria: quella per il controllo di Aleppo, la città martire di questo conflitto.

Ora: si può andare avanti a discutere all'infinito sugli interessi di Putin e sul fatto che per combattere l'Isis la stia prendendo decisamente «alla larga». Però stupirsi è del tutto ipocrita: Mosca gioca a carte scoperte, puntando sull'alleato che ha sostenuto fin dall'inizio. L'alternativa quale sarebbe? Continuare coi bombardamenti solo simbolici su Raqqa e Mosul - come fanno gli americani - e aspettare che intanto Aleppo cada completamente nelle mani di Jabat al Nusra?

Illudersi - però - che con l'arrivo dei russi adesso sarà una passeggiata per Assad vuole dire vivere altrettanto fuori dalla realtà. Perché i ribelli stra-armati da Qatar, Arabia Saudita - oltre che dagli scellerati regali di Washington - sono in grado di opporre una forte resistenza. Lo si è già visto in queste ore nelle cittadine intorno ad Hama. Ed è solo l'antipasto del nuovo girone infernale ancora più profondo in cui potrebbe finire Aleppo in caso di estensione del conflitto.

Lo ha capito bene il vescovo latino di Aleppo Georges Abou Khazen, che in un'intervista rilasciata appena qualche giorno fa a Tempi, ha avuto parole molto chiare: ha detto che «il fatto che la Russia aiuti il governo centrale, nell’attuale contesto non è sbagliato». Ma ha comunque sottolineato l'importanza di coinvolgere tutte le parti - «l’opposizione, la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Iran» - in «un negoziato vero per una soluzione». 

L'idea che i russi possano togliere le castagne dal fuoco a tutti in Siria riportando indietro le lancette dell'orologio resta un'illusione. Su questa strada si andrebbe solo a un'ulteriore estensione del conflitto con sofferenze indicibili per tutti. Ma probabilmente non è affatto questa l'intenzione di Putin, che nelle ultime settimane ha cercato appoggi anche in Israele, in Egitto, in Giordania, tutti Paesi che in teoria starebbero sul fronte opposto nel complicato scacchiere siriano. Putin non può permettersi di rimanere invischiato a lungo in questo pantano; così, parallelamente all'impegno militare, lancia segnali per accreditare la Russia come elemento di stabilità in questo Medio Oriente in fiamme. 

Questo protagonismo ha rimesso la situazione in movimento rendendo politicamente deboli i fautori della «caduta del tiranno di Damasco» come precondizione. Oggi si parla apertamente di una «transizione in Siria», anche se con un linguaggio che resta un po' ipocrita. Perché in un Paese profondamente spaccato e con arsenali di armi e sponsor potenti, l'unica transizione possibile ha il volto di una balcanizzazione. Una pace brutta, sporca e cattiva, scrivevamo già qualche giorno fa; guidata da una logica che assomiglia più a Yalta o agli accordi di Dayton, che a una soluzione capace di riportare in vita quel mosaico straordinario che era la Siria. A quel punto sì che sarebbe facile anche sbarazzarsi dello Stato islamico: non servirebbe più nemmeno agli apprendisti stregoni che a Riyad e ad Ankara hanno lasciato che crescesse per dare più forza ai propri interessi nella partita dei nuovi equilibri nell'intero Medio Oriente.