Si restringe la libertà religiosa nel mondo Isis, parlare di genocidio non è più tabù
Presentato il rapporto Usa sulla libertà religiosa nel mondo nel 2016 e primo semestre 2017. Nel complesso la situazione è peggiorata, le violazioni della libertà religiosa si sono aggravate ed estese. Tra i paesi dove la minaccia appare massiccia, sistematica e persistente c'è anche la Russia. Tra le entità non governative spicca l'Isis, che è chiaramente responsabile di genocidio contro Yazidi, Cristiani e musulmani sciiti. Proteggerli è una priorità dell’amministrazione Trump.
“Nel complesso la situazione è peggiorata, nel 2016 le violazioni della libertà religiosa si sono aggravate ed estese”. Padre Thomas Reese, presidente della Commissione degli Stati Uniti sulla libertà religiosa nel mondo, ha introdotto con queste parole il rapporto 2017 della Commissione, presentato il 15 agosto, relativo al 2016 e ai primi mesi del 2017. “Gli attacchi aperti – ha proseguito – sono diventati talmente spaventosi – tentati genocidi, massacri di persone innocenti, totale distruzione di luoghi di culto… – da far passare inosservate o quanto meno mettere in secondo piano altre violenze peraltro gravissime. Molti osservatori sono diventati insensibili alle violazioni del diritto di libertà di pensiero, coscienza e religione”.
Il rapporto è diviso in quattro sezioni, una delle quali – la principale – è dedicata ai paesi che presentano situazioni estreme, quelli che la legge Usa sulla libertà internazionale di religione chiede di classificare come “più preoccupanti” (l’acronimo inglese è CPC): paesi in cui violazioni particolarmente gravi della libertà di religione sono massicce, sistematiche e persistenti. Per il 2016 la Commissione ne ha individuati 16: Myanmar, Cina, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita, Sudan, Tagikistan, Turkmenistan, Repubblica Centrafricana, Nigeria, Pakistan, Russia, Siria e Vietnam. Ad eccezione della Russia, tutti i CPC compaiono nella classifica mondiale 2017 dei 50 stati in cui i cristiani sono più perseguitati, redatta dall’organizzazione non governativa Open Doors.
Come Open Doors, anche la Commissione Usa sulla libertà religiosa prende in esame le violazioni commesse sia da governi che da altri soggetti. Le violazioni imputabili a governi vanno dalle leggi sulla blasfemia ai provvedimenti repressivi adottati pretendendo di agire a tutela della sicurezza nazionale. La legge contro la blasfemia più repressiva è la cosiddetta “legge nera” del Pakistan, che prevede durissime sanzioni fino alla pena capitale. Però secondo il rapporto in tutto sono 70 i paesi con leggi che limitano la libertà religiosa accampando il presunto bisogno di difendere le religioni da comportamenti blasfemi. Tra gli esempi di oppressione con il pretesto della sicurezza nazionale il rapporto porta il Bahrein in cui nel 2016 la dinastia islamica sunnita al potere ha represso sempre più duramente la libertà religiosa della maggioranza musulmana sciita.
La persecuzione non governativa – sottolinea la commissione – può rappresentare una minaccia non meno grave. Dal 2016 una legge Usa prevede che si individuino anche le entità non governative che più minacciano la libertà di religione: una direttiva – commenta la Commissione – appropriata, che arriva tardi, perché i soggetti non governativi che in un paese controllano dei territori oppure hanno un significativo peso politico possono essere persino più oppressivi dei governi nei loro attacchi alla libertà religiosa. Il rapporto che per la prima volta recepisce la nuova legge, per il 2016 classifica come “entità più preoccupanti”, ECP, tre soggetti: l’Isis, in Iraq e in Siria, i Talebani, in Afghanistan e al Shabaab, in Somalia. Talebani e al Shabaab minacciano la libertà di religione sia ricorrendo ad attentati terroristici sia imponendo rigide regole di comportamento, e severe sanzioni per i trasgressori, nei territori sotto il loro controllo.
Altrettanto fa l’Isis, e con mezzi e portata d’azione di gran lunga maggiori. Già nell’estate del 2016 l’allora segretario di stato Usa John Kerry aveva dichiarato che l’Isis in Iraq e Siria stava compiendo un genocidio. Era la prima volta dal 2004 che l’amministrazione statunitense definiva “genocidio” una situazione di crisi. Nel 2004 era stato il segretario di stato Colin Powell ad affermare che in Darfur, la regione occidentale del Sudan, era in atto un genocidio.
L’attuale segretario di stato, Rex Tillerson, ha ribadito l’impegno espresso a maggio dal presidente Trump e dal vicepresidente Mike Pence a combattere la persecuzione dei cristiani, formulato in una nota di denuncia del “massacro spietato” di cristiani in Egitto ordinato dall’Isis. Tillerton ha a sua volta rinnovato l’accusa di genocidio all’Isis, precisando di voler spazzare via ogni ambiguità a riguardo, che dichiarazioni o rapporti precedenti rilasciati dal Dipartimento di stato potessero aver creato. Si riferiva a voci circolate nei mesi precedenti e, poi ufficialmente smentite, secondo cui il termine “genocidio” a proposito dell’Isis era stato rimosso dai documenti ufficiali.
“L’Isis – ha detto Tillerton il 15 agosto alla presentazione del Rapporto – è chiaramente responsabile di genocidio contro Yazidi, Cristiani e musulmani sciiti”. Proteggere i gruppi perseguitati dall’Isis e da altri estremisti violenti “è una priorità dell’amministrazione Trump”.
Il segretario di stato ha aggiunto che, per le popolazioni perseguitate, l’opzione da preferire nelle zone liberate dall’Isis è “permettere alla gente di tornare nei rispettivi villaggi tradizionali”.