Serve un'operazione verità per la pace in Medio Oriente
Nel Medio Oriente i nodi vengono al pettine. Gli Usa hanno annunciato che non considerano più illegali gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Invece che condannare a priori, occorre riflettere sul perché quei territori siano in mani israeliane. E sul fatto che nessun paese ha mai restituito terre conquistate in una guerra vinta.
La storia delle nazioni come la vita dell’uomo: Israele, i palestinesi e il mondo arabo, la comunità internazionale che ad essi si rapportano vivono il momento del chiarimento (auspicando che preluda alla comprensione e allo scioglimento) dei tanti nodi, parecchi, che negli anni non sono stati sciolti e si sono anzi ancor più aggrovigliati. È il momento della verità che si dischiude: maturato inesorabile, sovente investe non uno, ma insieme parecchi problemi irrisolti o accantonati. Fors’anche per questo è il momento in cui la comunità internazionale, se animata da spirito di pace, dovrebbe dimostrare moderazione e prudenza. Purtroppo non appare così e, invece di aiutare, irrita e rischia di ostacolare questo salutare processo.
Tra i nodi più appariscenti venuti al pettine: le ragioni che impediscono, dopo lo svolgimento nell’anno di due consultazioni politiche, la formazione di un governo di larghe intese (di “unità nazionale” per il quale si batte il presidente dello stato Reuven Rivlin) più profonde delle accuse che hanno portato ieri all’incriminazione del presidente del consiglio Benjamin Netanyahu. Anche se appaiono prevalenti, per il fatto che mai prima d’ora il presunto reato di corruzione ha infangato il volto di un capo del governo, che in Israele ha poteri e funzioni maggiori che in molti altri Paesi. Tanto da farlo reagire indicando nel Procuratore il deus ex machina di un “colpo di Stato”.
Ma non su questo intendiamo adesso soffermarci, quanto sul nodo dell’insuccesso, e della paralisi, del processo di pace, stimolati dal recentissimo annuncio ufficiale che gli Stati Uniti non considerano più contrari alla “legalità internazionale” i cosiddetti insediamenti. Meglio parlare dei centri abitati, decine su decine, costruiti in mezzo secolo, molti ampliati tanto da essere considerati città, nella Giudea e Samaria, regioni che nella geografia politica costituiscono la Cisgiordania e dove vivono centinaia di migliaia di ebrei, cittadini israeliani. Territori che dalla polemica politica palestinese e dalla comunità internazionale filo-araba, sono definiti “occupati” mentre correttamente dovrebbero essere chiamati “contesi”, “disputati”.
Considerarti tema cruciale della trattativa di pace per la considerazione primaria di cui gode il possesso della terra nella visione e sensibilità dei popoli di questo mondo, questi territori hanno fatto da scenario (ancor più del tema dell’acqua, elemento essenziale per la sopravvivenza dell’uomo) ad ogni tentativo o struttura istituita dalla comunità internazionale, per tentare di risolvere la complessa e aggrovigliata controversia israelo-araba, divenuta “israelo- palestinese” dopo ben tre guerre (promosse dal mondo arabo, uscitone sempre più sconfitto). Ad aiutare a risolverla non si è mossa la scienza giuridica vuoi per “prudenza” o per deliberata non ingerenza nel campo della politica. Un vuoto però occupato dalla politica che ha fatto ricorso all’arbitrato e a proposte verosimilmente ispirate dai principi di quella Giustizia (al cui studio e custodia ed esercizio stanno organi e istituzioni, non solo accademici, anche internazionali), ma rivelatisi praticamente inefficaci o disattesi.
Il principio della restituzione della terra conquistata in guerra non è stato mai accettato nei secoli. Non si conoscono precedenti e i libri di storia ce lo testimoniano. Israele invece “deve” restituire terre conquistate nel corso di due conflitti, quelli con il mondo arabo del 1948 e del 1967. Ce lo dicono ben due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (la 242 e la 338) espresse dopo questi eventi ma in termini imprecisi, tanto che non è stato mai chiarito dallo stesso organismo se ne chiedeva la restituzione di “tutti” o di parte. Altre risoluzioni sul principio della restituzione della terra e sulla illegalità degli “insediamenti” in essa costruiti sono state in tutti questi anni espressi dall’Assemblea generale dell’Onu e da altri suoi organismi, in particolare da Unesco e Consiglio per i diritti umani, con un’attenzione, insistenza e “accanimento” anti-israeliano da aver ottenuto il risultato peggiore, quello di minare la credibilità dei richiedenti.
Un trend che si è talmente incrostato che persino in questi giorni, di palese violazione dei diritti umani e manifestazioni a Teheran e a Hong Kong, l’Assemblea dell’Onu ha chiuso completamente gli occhi verso Iran e Cina e invece la sua quarta Commissione ha votato e approvato ben otto, diconsi otto, risoluzioni di condanna delle azioni israeliane a Gaza che “sconvolgono i diritti umani”; altre contro gli “insediamenti”, “Gerusalemme occupata”, “il Golan siriano occupato”. Senza per nulla accennare che 450 razzi sono stati lanciati dalla Jihad islamica da Gaza su Israele. E l’Italia, con altri paesi europei, ha votato sempre contro Israele, talvolta si è astenuta. Il colmo fu raggiunto qualche anno fa quando l’Italia aveva approvato una risoluzione dell’Unesco che ha negato la storia della Spianata di Gerusalemme sulla quale fu costruito e riedificato il Tempio ebraico di Salomone ed Erode, dimenticando che è anche luogo santo della cristianità per gli episodi della vita di Gesù; ed è invece luogo sacro soltanto per l’islam!
Sulla non-illegalità dei Territori conquistati da Israele espressa ora dagli Stati Uniti, in contrasto con quanto esprimeva fin dal 1978, molte sono state le spiegazioni date da analisti e osservatori: chi ha sostenuto che il presidente Donald Trump abbia voluto riconquistare il favore di ambienti interni vicini a Israele e distogliere l’attenzione sui suoi guai personali; chi ha visto un nuovo sostegno a Israele, dopo lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconosciuta capitale dello Stato amico; chi una risposta al “furore” anti-israeliano espresso dalle otto risoluzioni dell’Onu. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha sostenuto che la decisione “ridarà spazio alle trattative con i palestinesi”. Ha professato: “Non sono contrario alla legalità internazionale, lo status finale dei Territori sarà deciso nei colloqui di pace”.
Ma in attesa che questo auspicio divenga concreta realtà (l’amministrazione Trump, dal suo insediamento alla Casa Bianca, ha parlato di un’iniziativa preparata dal genero del Presidente, un “piano di pace” finora mai divulgato) appaiono necessari due sostegni. Il primo dovrebbe manifestarlo la comunità internazionale, riconoscendo le ragioni dell’insuccesso finora di ogni iniziativa da essa intrapresa, su sollecitazione di suoi organismi (il più impegnato è stato il “Quartetto” ) e da singoli Stati, soprattutto dagli Usa. E’ un’«operazione di verità» che deve essere proclamata, perché si conoscono bene le responsabilità palestinesi (di Arafat prima e di Abu Mazen dopo) nel rifiuto di compromessi israeliani larghi (definiti “impensabili” da Clinton e da Condoleezza Rice) rappresentati dai premier israeliani Barak e Olmert.
In questa «operazione verità» deve impegnarsi anche l’Unione Europea, chiarendo all’opinione pubblica il suo atteggiamento anti-israeliano e valutando quanto questo incida nella crescita dell’antisemitismo, che ha raggiunto livelli alti dimostrati da inquietanti episodi. Un processo che riguarda il governo italiano che alle parole non fa corrispondere i suoi atteggiamenti verso Israele (per molti osservatori improbabile per le avversioni antiche professate da esponenti del Movimento Cinque Stelle). E non solo l’Italia. Non basta richiamare solo la validità della formula dei “due Stati per due popoli”, come ha reagito la diplomazia vaticana alla “svolta” degli Stati Uniti. Occorrerebbe spiegare come arrivarci, se i palestinesi rifiutano ogni trattativa.
Una «operazione verità» che investe, non solo gli storici, nella ricostruzione delle ragioni che hanno portato al ritorno degli ebrei nella loro terra di origine, alla “loro” Gerusalemme, al loro privilegiato rapporto con la Città e la Terra Santa. (Vi sono impegnato nelle conferenze su “Gerusalemme l’incompresa” che sono chiamato a tenere in ogni parte d’Italia). Investe gli esperti militari nella formulazione di uno status che dia garanzie di sicurezza allo Stato di Israele circondato da inveterate, secolari, avversità contro “corpi estranei” al mondo arabo che lo circonda. Investe gli esperti di diritto nell’uscire dal political correct e chiarire vicende storiche e compiti attuali di organismi preposti al mantenimento della pacifica convivenza; i membri della comunità internazionale perché rinuncino a parte delle prerogative della loro sovranità nazionale a favore di istituzioni sovranazionali in grado di essere credibili e rispettate. E investe naturalmente il dialogo interreligioso, riconoscendo che la pace per gli uomini di buona volontà è esclusivo dono di Dio.