Serbia-Kosovo, ci risiamo. E l'Ue sta a guardare
Dai Balcani giungono notizie di nuove mire serbe in Kosovo. Non possiamo lamentarci che la Russia di Putin avanzi oltre l’auspicabile nel Sudest europeo se l’Unione Europea non fa la sua parte. E quindi se non fa la sua parte l’Italia, che fra i suoi maggiori Stati membri è quello più direttamente interessato.
Giungono dai Balcani, che sono a due passi da noi, notizie di cui il nostro mondo politico, e perciò i nostri maggiori giornali e telegiornali non si occupano, ma che invece meriterebbero grande attenzione. Certa del sostegno della Russia, e dell’inerzia dell’Unione Europea, la Serbia rende a riaprire la crisi del Kosovo. All’inizio di gennaio il presidente serbo, Tomislav Nicoli?, ha annunciato il suo proposito di recarsi, in occasione del Natale ortodosso, in visita a Strpce, una località del sud del Kosovo abitata da serbi.
Come era prevedibile il governo del Kosovo gli ha negato l’ingresso nel Paese. Pochi giorni dopo, quando per la prima volta da 18 anni, avrebbe dovuto fare la sua prima corsa un treno diretto tra Belgrado e Mitrovica, centro principale del lembo di Kosovo a maggioranza serba, si è appreso che i vagoni del convoglio erano stati ridipinti con i colori della bandiera serba e che sulle loro fiancate campeggiava in circa 20 diverse lingue la frase «Il Kosovo è Serbia», scritta a grandi caratteri. Naturalmente il treno è stato bloccato e l’avvio del collegamento ferroviario diretto tra Belgrado e Mitrovica è stato rinviato sine die.
Si tratta evidentemente di provocazioni, in fin dei conti anche un po’ puerili, che però sono il segno evidente di una volontà di riattizzare il fuoco, che cova sotto la cenere, di un conflitto mai risolto nel cuore di una parte dell’Europa, sin qui fuori dell’Unione Europea, che non solo è vicina a noi (dista dal Nord Italia circa due ore di volo, e dal Sud anche meno di un’ora), ma il cui eventuale sviluppo sarebbe di grande importanza anche per la nostra economia.
Che nell’Unione siano da tempo entrati la Polonia, i Paesi Baltici, la Romania e la Bulgaria, e invece ne restino ancora fuori la Serbia e altri quattro Paesi del Sudest con cui confina, la dice lunga sulla priorità di cui godono in sede europea gli interessi della Germania rispetto ai nostri. Non è però soltanto degli altri che ci dobbiamo lamentare, ma anche dell’incapacità dei nostri governi di fare una politica estera in modo strategico e non casuale.
Paese di tradizione ortossa e con antichi legami con la Russia (basti dire che il serbo viene scritto con l’alfabeto cirillico, pur se oggi tende a diffondersi anche la sua scrittura nell’alfabeto latino), la Serbia è storicamente un potenziale avamposto dell’influenza russa nell’Europa sudorientale. Putin, la cui politica internazionale tende a battere di nuovo tutte le vie già percorse dalla Russia zarista, ha colto al volo l’occasione offertagli dall’isolamento della Serbia e dal suo disagio per la perdita del Kosovo, oggi terra abitata da albanesi in larghissima maggioranza, ma un tempo sede del patriarca serbo e tuttora con importanti tracce manumentali di quella sua precedente stagione.
Un’Unione Europea consapevole di sè avrebbe dovuto tenere ben conto di questo stato di cose, e quindi proporre attivamente se stessa quale solida cornice possibile della riconciliazione tra Serbia e Kosovo e di un’equilibrata stabilizzazione dei loro rapporti. Al momento opportuno niente di tutto questo è stato fatto, e ora se ne patiscono le conseguenze. Quello delle relazioni internazionali è un equilibrio tra forze. In tale prospettiva ognuno deve fare la propria parte, pena in caso contrario il sopravvenire di uno squilibrio.
Non possiamo lamentarci che la Russia di Putin avanzi oltre l’auspicabile sia nel Sudest europeo che nel Mediterraneo e nel Medio Oriente se l’Unione Europea non fa la sua parte. E quindi se non fa la sua parte l’Italia, che fra i suoi maggiori Stati membri è quello più direttamente interessato. Perciò un governo italiano all’altezza della situazione dovrebbe attivamente preoccuparsi di favorire l’avvicinamento coordinato all’Unione dei Paesi del Sudest europeo che ne sono ancora fuori, ossia la Serbia, la Bosnia-Erzegovina, il Kosovo, il Montenegro, l’Albania e la Macedonia cogliendo la circostanza per favorire la soluzione dei problemi che tra loro sono aperti.
E’ chiaro che, specialmente alcuni, hanno un grado di sviluppo e una qualità amministrativa ben lontana dalla media dell’Ue. Non inferiore però a quella della Romania e della Bulgaria. I regimi di transizione e gli adattamenti di lungo periodo che si sono sperimentati in questi due casi si potrebbero applicare anche a loro.
C’è poi un elemento che potrebbe indurre anche la Germania a una maggiore sensibilità al problema: la Serbia tiene le chiavi della navigazione sul Danubio, che nel suo territorio la Germania ha collegato al Reno creando così anche a proprio vantaggio un enorme potenziale volano di sviluppo dell’intero Est europeo che resta finora largamente sotto-utilizzato. A palazzo Chigi e alla Farnesina lo sapranno?