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MAGISTRATURA E POLITICA

Sentenza Ilva intrisa di pregiudizio ideologico

Il pregiudizio ideologico di alcune toghe è ben visibile, senza bisogno di scomodare i retroscena come quelli di Palamara. L'ennesima dimostrazione è la sentenza Ilva, dove, senza prove scientifiche inoppugnabili, si accusa la famiglia Riva di inquinamento "devastante per la salute e per l'ambiente". Bruno Ferrante è stato assolto

Politica 02_06_2021
Ilva di Taranto

Ormai sulla magistratura ogni giorno ci sarebbe qualcosa da dire. Ieri la Lega di Matteo Salvini e i radicali hanno presentato i sei referendum sulla separazione delle carriere e altre idee di riforma del pianeta giustizia. Ce n’è, in effetti, un gran bisogno. Tanto più dopo la scoperta del “sistema Palamara”, che ha evidenziato il marciume e le falle nel sistema giudiziario e nei rapporti con la politica.

Lunedì nella sentenza Ilva si è avuta l’ennesima dimostrazione tangibile del pregiudizio ideologico di alcune toghe e della loro sudditanza ai teoremi di certi pubblici ministeri. Si tratta solo di un verdetto di primo grado, non esecutivo e quindi ci sarà tutto il tempo di fare chiarezza e, perché no, ribaltare una sentenza che risulta intrisa di ambientalismo senza evidenze scientifiche e con un furore iconoclasta con pochi precedenti. Nella gestione dell'ex Ilva da parte della famiglia Riva, tra il 1995 e il 2012, lo stabilimento siderurgico di Taranto provocò un inquinamento che i pm hanno definito "devastante per la salute e per l'ambiente". Questa decisione la Corte d'Assise l’ha presa dopo cinque anni di dibattimento e 11 giorni di camera di consiglio. 26 le condanne, tra dirigenti della fabbrica, manager e politici, per 270 anni di carcere. I giudici hanno altresì disposto sia la confisca degli impianti dell'area a caldo che la confisca per equivalente dell'illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici per una somma di 2,1 miliardi.

Ma entriamo nel merito della sentenza. L’Ilva avvelenava Taranto e ammazzava i bambini? Aumentava il rischio di tumori? Comprometteva la salute dei cittadini? Ci sono elementi a supporto di queste tesi? Stando alla sentenza di ieri si. Ma le contraddizioni e i sospetti di forzature emotive non mancano. Anzitutto, dopo 5 anni di udienze e centinaia di testi, sembra che i pm abbiano sposato fin dall’inizio un punto di vista colpevolista nei confronti di Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e vertici dell’acciaieria, condannati rispettivamente a 22 e 20 anni di reclusione, fermandosi alle indagini preliminari, senza minimamente porsi nell’ottica di dover dimostrare un nesso di causalità tra l’inquinamento ambientale di Ilva e le malattie di Taranto. Il reato contestato è di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Mille le parti civili, con oltre trenta miliardi di richieste di risarcimento.

Tuttavia, in pochi hanno rimarcato un particolare non secondario: ricerche, studi, cartelle cliniche non dimostrano con certezza le criticità alla base della sentenza dell’altro ieri. Ma il giustizialismo, si sa, è una brutta bestia. E questa volta, sorprendentemente, se n’è accorto uno che con i giustizialisti è sempre andato a braccetto, forse senza troppa convinzione ma certamente per affinità ideologica e culturale: l’ex governatore della Puglia, Nichi Vendola, condannato a tre anni e mezzo, che ora paragona la giustizia a un “ecomostro”, asserisce di aver difeso ambiente e salute e sottolinea la necessità di “bonificare la giustizia” perché «la sentenza è una vergogna, carneficina del diritto e della verità». L’avesse detto un governatore di centrodestra lo avrebbero crocifisso.

Che il clima forcaiolo sia duro a morire lo sa bene anche Bruno Ferrante, ex Prefetto di Milano, presidente del cda di Ilva, per il quale l’accusa aveva chiesto 17 anni di carcere. A rigor di logica non si comprende perché «gli imputati – è il pensiero dei pm- erano animati da dolo intenzionale diretto all’evento del reato, che è il disastro», cioè i Riva volevano prima avvelenare, poi produrre, mentre Ferrante, che nelle ardite ricostruzioni giornalistiche di quegli anni figurava come una sorta di uomo di fiducia della proprietà, messo lì dai vertici per coprire le loro nefandezze, sia stato considerato innocente. Evidentemente, e questa è una fortuna, l’impianto accusatorio non era poi così granitico e i giudici non sono andati fino in fondo a rimorchio dei pm. Peccato, però, che i media, nel cavalcare il sensazionalismo colpevolista, abbiano omesso di far sapere all’opinione pubblica che Bruno Ferrante è stato assolto. Neppure una riga su molti quotidiani e solo qualche riferimento, ben nascosto, negli articoli on line. Sfumato il particolare anche nei telegiornali. Si sa che le condanne fanno più rumore delle assoluzioni, ma la cronaca giudiziaria non può essere eterodiretta dal pregiudizio e animata esclusivamente da intenti manipolatori. Ed è quello che è successo lunedì quando le agenzie hanno battuto la notizia della sentenza.

Gran parte dell’opinione pubblica applaude e la ritiene una vittoria del diritto alla salute sulla logica del profitto. Ancora una volta prevale l’ideologia, ispiratrice di tante sentenze che hanno fatto la storia d’Italia. Il futuro dell’impianto siderurgico più grande d’Europa è appeso a un filo. Il Consiglio di Stato dovrà pronunciarsi nei prossimi giorni sul suo spegnimento. E se spegnimento sarà, la catastrofe sociale diventerà uno scenario inevitabile. Ma si dirà che tutto è stato fatto per senso di giustizia, in nome della tutela dell’ambiente e della salute pubblica.