Senegal e Ciad cacciano i francesi. Come Macron ha perso l'Africa
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Anche Senegal e Ciad non vogliono più la presenza di truppe francesi sui loro territori. Due secoli di tradizione francese nel continente nero stanno finendo. E l'Italia non subentra: il Piano Mattei è solo civile.
Tra i diversi elementi che hanno contribuito alla crisi della presidenza di Emmanuel Macron quello forse più grave sul piano strategico (e paradossalmente il meno pubblicizzato dai media) è la débacle subita in Africa dove due secoli di influenza e presenza militare francese sono stati spazzati via da due mandati di Macron.
Nei giorni scorsi altre due nazioni africane si soni unite a Mali, Niger e Burkina Faso, le cui giunte militari avevano cacciato le truppe francesi oltre a quelle della UE sotto comando francese in Mali (Operation Barkhane) e quelle tedesche e statunitensi in Niger. I militari di Parigi e le loro basi vengono estromessi ora anche da Senegal e Ciad, proprio mentre Macron stava mettendo a punto un piano per ridimensionare la presenza nelle nazioni africane che ancora accettano la sempre più ingombrante “tutela” francese.
Il 27 dicembre il primo ministro senegalese Ousmane Sonko ha annunciato la “prossima chiusura di tutte le basi militari straniere in Senegal”: frase riferita esclusivamente alle due basi francesi che ospitano 350 militari poiché che nessuna altra nazione straniera mantiene una presenza militare in Senegal. Sonko ha precisato che questa decisione è stata presa dal presidente della Repubblica, Bassirou Diomaye Faye, senza rendere nota la data ma garantendo che ciò avverrà presto. «È arrivato il momento che il Senegal gestisca la propria difesa e il proprio territorio, senza influenze esterne», ha affermato Sonko chiarendo che questa misura fa parte «della volontà di rafforzare l’autonomia nazionale in materia di sicurezza». In un’intervista pubblicata da Le Monde, il presidente Faye ha detto che «solo perché i francesi sono qui dai tempi della schiavitù non significa che sia impossibile fare altrimenti».
Il governo del Ciad, fino a ieri il partner più stabile e leale della Francia in Africa, ha annunciato il 28 novembre la fine della cooperazione militare con Parigi allo scopo di “ridefinire la propria sovranità”, imponendo così ai francesi il ritiro di tutte le forze presenti, un migliaio di militari e una dozzina di velivoli distribuiti in tre basi una delle quali, Faya Largeau, già evacuata da Parigi. Il 20 dicembre il governo del Ciad ha chiesto a Parigi di accelerare le operazioni per completarle entro il 31 gennaio. «È ora per il Ciad di affermare la sua piena sovranità e di ridefinire i suoi partenariati strategici, sulla base delle sue priorità’ nazionali», ha dichiarato in un comunicato il ministro degli Esteri, Abderaman Koulamallah, precisando che la decisione non rimette in questione «le relazioni storiche e il legame di amicizia fra i due Paesi». Mezzi e attrezzature verranno trasferiti con lunghi convogli nel porto camerunense di Douala per il rientro in Francia mentre la gran parte del personale verrà rimpatriato in aereo.
Il Ciad era rimasto l’ultimo bastione della presenza aerea e terrestre francese nel Sahel dopo che Mali, Burkina Faso e Niger avevano aperto la porta alla presenza militare russa e alla cooperazione anche con Cina e Turchia. Nell’aprile scorso il Ciad aveva interrotto anche la cooperazione militare con gli Stati Uniti, allontanando il centinaio di militari americani presenti a N’Djamena. «La decisione del Ciad segna l’ultimo chiodo nella bara del dominio militare postcoloniale della Francia nell’intera regione del Sahel», ha affermato Mucahid Durmaz, analista senior presso la società di consulenza Verisk Maplecroft, intervistato dall’Associated Press.
Le decisioni del Senegal e del Ciad «fanno parte della più ampia trasformazione strutturale nell’impegno della regione con la Francia, in cui l’influenza politica e militare di Parigi continua a diminuire», ha aggiunto Durmaz. Gli annunci di Senegal e Ciad sono arrivati quasi inaspettati proprio mentre la Francia stava cercando di rilanciare faticosamente la sua influenza in declino in Africa.
Jean-Marie Bockel, inviato personale di Macron per l’Africa, in novembre ha presentato all’Eliseo un rapporto sull’evoluzione della presenza militare francese in Africa i cui dettagli non sono stati divulgati ma tre alti funzionari francesi citati dall’agenzia AP, parlando in condizione di anonimato, hanno affermato che la Francia mirava a una forte riduzione della presenza militare in tutte le sue basi in Africa, ad eccezione di Gibuti, dove Macron si è recato il 20 dicembre in visita alla guarnigione di1.500 militari con i quali il presidente ha trascorso la vigilia e la cena di Natale.
L’esercito francese all’inizio del 2024 ha istituito un Comando per l’Africa, sulla falsariga dello statunitense AFRICOM con sede a Stoccarda (Germania), guidato dal generale di brigata Pascal Ianni, e responsabile ormai di una forza limitata composta da 600 militari in Costa d’Avorio, 350 in Gabon, i già citati 1.500 a Gibuti e 900 a Mayotte, l’isola dell’Oceano Indiano colpita recentemente da un uragano che ha visto un rilevante intervento di soccorso delle forze armate francesi.
La cacciata dei francesi dall’Africa rappresenta una umiliante sconfitta per Macron, che non è mai riuscito a instaurare rapporti positivi con i leader africani forse per carenza di cultura politica, ma rientra nel crollo generale di credibilità dell’Occidente nel continente africano. Un crollo acceleratosi dopo l’inizio della guerra in Ucraina e che non ha risparmiato dall’estromissione dal Sahel anche forze statunitensi e tedesche.
L’Italia, unica nazione occidentale a mantenere la presenza militare in Niger, non sembra però in grado di porsi come alternativa alle altre potenze occidentali cadute in disgrazia in Africa e non sembra in grado di contrastare la penetrazione militare, politica ed economica di Russia, Cina e Turchia. A questo proposito, il “Piano Mattei” costituisce un’opportunità finora mancata a causa di un approccio troppo incentrato sugli aspetti umanitari e che vede gli investimenti dispersi nell’ambito di progetti sovranazionali in cui l’Italia non ha protagonismo né visibilità.
I sei pilastri del Piano Mattei (Istruzione e formazione, Agricoltura, Salute, Energia, Acqua e Infrastrutture) non includono Difesa e Sicurezza che emergono però platealmente come le prioritarie esigenze espresse dai governi africani. Naturale quindi che vengano preferiti i pacchetti offerti principalmente dalla Russia (ma sempre più spesso anche da Cina e Turchia) che comprendono consiglieri militari, istruttori, contractors e armamenti oltre ovviamente ad aiuti economici.
Anche osservando i finanziamenti di 600 milioni di euro destinati ai primi progetti del Piano Mattei appare evidente che “l’italianità” viene molto annacquata all’interno di iniziative targate USA e UE e organismi internazionali. Tra i 22 progetti finanziati, quello più rilevante (fino a 300 milioni) è costituito dalla Fase 2 di sviluppo del “Corridoio di Lobito”, la nuova connessione ferroviaria tra l’Angola e la regione mineraria del rame in Zambia, progetto guidato da USA e UE.
Altri 71 milioni sono destinati al Kenya dal Fondo italiano per il clima per l’ampliamento della produzione di olio vegetale per biocarburanti avanzati, il cui esecutore è Eni Kenya in partenariato con il ministero dell’Agricoltura locale. I fondi italiani amplificano un finanziamento di 128 milioni dell’International Finance Corporation (Banca Mondiale), per un pacchetto complessivo di circa 200 milioni. Circa altri progetti è stata evidenziata la sinergia con il Global Gateway dell’UE.
Paradossale quindi che l’Italia riversi i pochi fondi racimolati per il Piano Mattei spalmandoli su progetti che portano le bandiere di USA e UE, che sono sempre meno popolari nel continente africano e soprattutto in Nord Africa e nel Sahel dove sono concentrati i maggiori interessi italiani.