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VENDITA

Se Renzi rottama anche l’Ilva Pessimo affare

Come se fosse non diciamo un’auto usata, ma non più che una villa patrizia in Toscana, con un’inserzione pubblicata su grandi giornali italiani e stranieri il governo Renzi ha annunciato martedì scorso che metterà in vendita le acciaierie Ilva di Taranto. Aggiungendo così un altro disastroso anello a una già disastrosa catena, il maggiore complesso siderurgico (e la prima azienda manifatturiera d’Italia per numero di posti di lavoro).

Economia 08_01_2016
L'Ilva di Taranto

Come se fosse non diciamo un’auto usata, ma non più che una villa patrizia in Toscana, con un’inserzione pubblicata su grandi giornali italiani e stranieri il governo Renzi ha annunciato martedì scorso che metterà in vendita le acciaierie Ilva di Taranto. Aggiungendo così un altro disastroso anello a una già disastrosa catena, il maggiore complesso siderurgico (e la prima azienda manifatturiera d’Italia per numero di posti di lavoro fra dipendenti diretti e dipendenti delle imprese dell’indotto) viene così messo sul mercato dopo due anni di gestione governativa con pessimi risultati sul piano finanziario e mentre il cuore dello stabilimento, ossia la cosiddetta “area a caldo”, continua ad essere sotto sequestro per ordine della magistratura seppur «con facoltà d’uso degli impianti». 

Trattandosi non di un prodotto di consumo di massa, ma di una fabbrica che in tutto il mondo può interessare e può essere alla portata della borsa di non più di qualche decina di grandi e grandissimi operatori economici, c’è da domandarsi perché mai si sia pensato di annunciarne la vendita in questo modo. Forse nella speranza che alla notizia qualche pendolare giapponese decida di rompere il salvadanaio e buttarsi nell’impresa, oppure che qualche intraprendente massaia americana lanci l’idea tra le sue amiche in coda alle casse del supermercato? L’unico esito concreto dell’iniziativa non può essere altro se non quello di far sapere al mondo intero che, dopo aver proclamato al mondo «Fermi tutti, arrivo io!», il governo italiano non sa più come uscire dal pasticcio dell’Ilva. 

L’azienda – che lo Stato aveva venduto nel 1995 alla famiglia Riva – poteva vantare un patrimonio valutato attorno ai 4 miliardi di euro e produceva molto acciaio e molti utili quando nel 2012 il governo Monti, per bocca dell’allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini, le impose un piano di risanamento degli impianti e del sito ove sorgono (dove per circa cinquant’anni si è accumulato il deposito di fumi e di materiali la cui nocività spesso venne scoperta solo in tempi molto successivi). Sulla necessità e l’urgenza di tale risanamento non c’erano dubbi, anche se le relative responsabilità ricadevano non soltanto sui Riva, ma anche sui precedenti proprietari, e quindi sullo Stato che ne aveva avuta la proprietà per decenni.La gestione del processo di risanamento è tuttavia stata tale da condurre l’Ilva alla rovina. 

Alla radice del disastro c’è in primo luogo un’ideologia – molto diffusa nella magistratura oltre che nel mondo della stampa progressista -- in forza della quale da un  lato l’iniziativa economica è di per sé tendenzialmente criminosa; e dall’altro l’attività industriale è inquinante in modo irreparabile, e quindi non c’è altro da fare se non porvi termine (evidentemente a patto che in qualche altra parte del mondo qualcuno nel frattempo accetti di farsi avvelenare al posto nostro). Corollario di tale “filosofia” è la presunzione che qualsiasi inquinamento sia stato voluto in mala fede. Non importa dunque che in un gran numero di casi l’accertamento del carattere nocivo di certi materiali e di certe lavorazioni sia ad essi non contemporaneo, bensì successivo. Per chi la pensa come si diceva l’imprenditore è responsabile in ogni caso. 

Non appena pertanto venne messo in moto il processo di risanamento ambientale dell’Ilva, alla ricerca di responsabilità penali la magistratura di Taranto cominciò a sequestrare porzioni del sito e di impianti dello stabilimento di fatto intralciando e spesso bloccando sia il risanamento sia la produzione dell’acciaieria. Si arrivò al punto di sequestrare in quanto “corpo del reato” tonnellate di prodotti pronti per la spedizione al cliente. Ovviamente in breve tempo l’Ilva cominciò ad accumulare non più profitti bensì perdite. Nel giugno 2013 il governo Letta, per mano del ministro dell’Ambiente dell’epoca Andrea Orlando, puntò a risolvere la questione nominando un commissario ad hoc per il risanamento, a questo punto non solo ambientale, ma anche finanziario dell’impresa. Nella pratica, si trattava di una specie di nazionalizzazione senza indennizzo. 

Da allora a oggi il gruppo Riva resta proprietario dell’Ilva, ma la sua gestione è in capo allo Stato. Si tratta in effetti di un assetto che il governo ha imposto a colpi di decreti di incerto fondamento giuridico che con molta probabilità non reggerebbero alla prova di una causa. Oggi i Riva non hanno oggi alcun interesse a sollevare la questione, ma comunque chi mai, stando così le cose, comprerebbe l’Ilva dallo Stato italiano senza nemmeno avere la certezza del suo diritto a venderla? Essendo andato a finire in questo vicolo cieco, il governo Renzi, ha infine giocato l’unica carta che gli è restata in mano: quella della promessa, fatta per bocca dell’attuale ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti all’eventuale futuro proprietario, di una disponibilità a rivedere tempi e modi del programma di risanamento. Un ben modesto incentivo essendo noto a tutto il mondo che nel nostro Paese a colpi di sequestri e di altre misure cautelari un singolo magistrato inquirente può bloccare prima di qualsiasi eventuale sentenza non solo un programma di risanamento pur approvato dal governo, ma persino la stessa produzione dell’impianto.

Lo scorso 14 luglio l’attuale ministro della Giustizia Orlando si è recato a Londra, uno dei maggiori crocevia dell’economia mondiale, a rassicurare gli investitori internazionali sulla situazione della giustizia civile in Italia. Parlando alla Law Society of London ha detto che il governo Renzi è impegnato a riformarla e a creare in Italia un ambiente giuridico e amministrativo più favorevole agli investimenti stranieri. Vogliamo credere che sia vero. Frattanto c’è qualcuno a Palazzo Chigi e dintorni che si rende conto di quale pubblicità negativa alla scala planetaria sia il caso Ilva per il nostro Paese e la sua economia?