Se le oligarchie dell’Ue scelgono gli sconfitti
Europee di maggio: il Pd perde cinque milioni di elettori rispetto alle elezioni di cinque anni prima, ma vede eleggere un suo esponente (Sassoli) alla guida dell’Europarlamento e non si esclude guadagni anche il commissario. Dalla riconferma dello sconfitto Tusk nel 2017 al caso attuale dei belgi Michel e Reynders: come i potentati eludono le scelte degli elettori.
Gli italiani si stanno rendendo amaramente conto di quanti strati di potentati si interpongono fra i cittadini e i centri decisionali, che non sono a Roma ma “in Europa”. Che comandino i commissari lo si era capito, ma si pensava che votando a milioni per un partito sarebbe cambiato qualcosa per l’Italia. Invece, siccome le coalizioni si fanno dopo le elezioni, e non prima, come nel sistema italiano, questo dà la possibilità ai partiti di eludere e addirittura ribaltare l’indicazione degli elettori, recuperando a livello sovranazionale chi ha perso a livello nazionale.
È così che, dopo le elezioni, il Partito democratico, che in Italia nel marzo 2018 aveva perduto la guida del governo e alle europee di maggio 2019 era regredito della bellezza di 18 punti percentuali rispetto alle elezioni di cinque anni prima, mettendo a segno una diminuzione di oltre cinque milioni di elettori, ha visto eleggere un suo europarlamentare, David Sassoli, a presidente del Parlamento, facendo seguire, in una stessa casella di dirigenza, l’italiano Sassoli all’italiano Antonio Tajani. Questo è potuto avvenire solo grazie al fatto che il Pd fa parte del raggruppamento europeo S&D (Socialists and Democrats), che ha ammortizzato il crollo della componente italiana rimanendo il secondo partito “in Europa” dopo il PPE.
Ma le sorprese non sono solo di adesso e non riguardano solo l’Italia. Un caso così eclatante di ‘sorpasso’ degli eletti, nell’Ue, alle consultazioni in patria da parte di politici che a quelle consultazioni erano stati silurati, si era già visto nel 2017 con la conferma di Donald Tusk a un secondo mandato da presidente del Consiglio europeo dopo essere stato sconfitto alle elezioni nel suo Paese, la Polonia.
Il governo polacco si indignò, la premier Beata Szydlo fece vibrate rimostranze, fu illustrata la vicenda Smolensk (del 2010) in cui Tusk era accusato di negligenza nella gestione del tragico incidente aereo e da qualcuno addirittura di complicità con i russi. Ma non ci fu niente da fare: la Polonia con le elezioni del partito di centrodestra cattolico Pis era passata da beniamina dell'Ue a guardata a vista; e il Consiglio, seppure espressione dei vari governi, comprese le quattro nazioni di Visegrad (di cui la Polonia fa parte), votò la fiducia a Tusk.
Quest’anno si profila un caso simile sempre in relazione alla carica di presidente del Consiglio europeo, con l’elezione, come successore di Tusk, del premier dimissionario belga Charles Michel. Nel maggio scorso Michel aveva perduto malamente le elezioni nazionali, in cui il suo partito (il Movimento Riformatore) aveva raccolto meno dell’8 per cento del voto; peraltro, già prima delle elezioni era stato dimissionario, rimasto in carica solo per l’ordinaria amministrazione dal dicembre 2018. Adesso, oplà, si ritrova a presiedere un consesso che raccoglie le rappresentanze di tutti i governi membri dell’Ue, e che ha alcuni poteri decisionali di non poco conto, come la ratifica o meno delle procedure d’infrazione.
Ma non basta. Siccome lo stesso Charles Michel in Belgio è tuttora in carica come presidente del Consiglio (perché il partito vincitore delle elezioni, la Nuova Alleanza Fiamminga, a 100 giorni di distanza non è neppure riuscito a iniziare i negoziati per una coalizione, per via delle concomitanti elezioni regionali), egli ha ritenuto opportuno decidere in autonomia il nome del commissario europeo per il Belgio - senza neppure consultare il partito di maggioranza - nella persona di Didier Reynders, ministro degli Esteri sempre del governo sfiduciato e del partito di Michel. Naturalmente tale nomina ha suscitato le ire dei partiti maggioritari.
Il caso belga è particolarmente istruttivo perché la divisione non è su posizioni sinistra/destra, visto che sono di destra sia il Movimento Riformatore di Michel, sia i partiti usciti vincenti dalle elezioni come la Nuova Alleanza Fiamminga (che nell’Ue siede nel gruppo dei Conservatori e riformisti, dove siede anche Fratelli d’Italia) e Vlaams Belang (“Interesse fiammingo”, facente parte in Ue del Gruppo Identità e democrazia, dove per l’Italia c’è la Lega).
E la spaccatura non si è consumata neppure lungo la faglia fiamminghi/francofoni. La caduta del governo Michel nel dicembre scorso avvenne per il ritiro della fiducia di Nuova Alleanza Fiamminga, a causa della determinazione di Michel di firmare il Migration Compact di Marrakesh, dunque sul tema dell’immigrazione, anche qui, molto lontano da Lampedusa.
Dicevamo che abbiamo capito ormai tutti che il potere ce l’hanno i commissari. La Lega, dopo aver vinto le elezioni europee, aveva indicato al presidente del Consiglio una rosa di nomi (fra cui Giorgetti, Garavaglia e Centinaio) per il posto del commissario che ci rappresenterà nel quinquennio 2019-2024. Ma l’Italia, unico fra i 28 paesi membri dell’Ue, al momento non risulta aver ancora indicato nessun nome in via ufficiale.
Però qualcuna delle pubblicazioni che si occupano di Bruxelles il 27 agosto i nomi per l’Italia li dava già, ed erano tutti del Pd: l’ex-ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che in Italia era arrivato dall’iperuranio delle entità globaliste (l’Ocse), gli ex-presidenti del Consiglio Paolo Gentiloni ed Enrico Letta, e Roberto Gualtieri, professore associato di Storia contemporanea all’Università La Sapienza e vicepresidente della Fondazione Gramsci, componente della segreteria nazionale del Pd. Il tam tam diceva che il prescelto sarebbe stato quest’ultimo.
La spartizione dei 28 commissari, uno per Paese, risulta così di 10 ai socialisti, 9 ai popolari - compresa la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen - 5 ai liberali, 1 solo ai conservatori (quello polacco), 3 a figure che non appartengono a nessuna formazione (la lituana, vicina ai verdi, lo sloveno, senza affiliazione, e l’ungherese, in quanto il partito Fidesz è attualmente sospeso dal PPE).