Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA STORIA

"Se il suicidio assistito fosse legale sarei già morto"

Coetaneo di Brittany Maynard, la donna usata come sponsor della legalizzazione del "suicidio assistito", colpito dalla stessa malattia nello stesso anno, non solo ha scelto un'altra strada ma sostiene che la sola via umana è la lotta per la vita. "Questa legge non dà libertà di scelta ma fa sentire obbligati a uccidersi". 

Vita e bioetica 08_10_2017

Non si può immaginare cosa significhi sposare una donna, andare a vivere in una grande casa americana in mezzo alla natura, essere felicissimi e grati del proprio matrimonio, subito benedetto dal dono di un figlio amatissimo e scoprire di punto in bianco che hai solo “quattro mesi di vita”.

Queste furono le parole che sconvolsero nel maggio del 2014 J.J. Hanson, dopo che il medico gli diagnosticò un cancro al cervello fra i più aggressivi che esistano. “Vivevamo quello che si chiama l'American Dream, ma “cominciai ad avere degli attacchi di panico, capivo che c’era qualcosa che non andava”. Ma mai Hanson avrebbe pensato di avere un glioblastoma, lo stesso tumore che affliggeva Brittany Maynard, la donna californiana il cui caso fu usato per promuovere la legalizzazione del suicidio assistito proprio lo stesso anno in cui anche Hanson si ammalò. I medici che lo visitarono furono diversi, ma tutti “mi dissero che il cancro era inoperabile” e che “non c’era nulla che potessero fare”. Sono le parole dell’uomo in un video che circolò un anno dopo la diagnosi.

In una più recente intervista alla Cna Hanson, che oggi è padre di un secondo bambino, ha spiegato perché è alla presidenza del Patient Rights Action Fund, che lotta per il supporto alle famiglie delle persone malate contro l’ideologia eutanasica che le vorrebbe morte. Nel video su YouTube, Hanson spiega che “un giorno prima corri, ti diverti, lavori, giochi con tuo figlio, tutto sembra andare bene e poi improvvisamente un uomo arriva e ti dice: morirai”.  Perciò ha spiegato alla Cna che se nessuno ti supporta e sei in “un momento buio, magari l’avrei fatto anche io (uccidermi, ndr)”. Infatti, “avrei facilmente soddisfatto i criteri per accedere al suicidio assistito se fossi vissuto in Oregon o in California dove è legale”,  ma “sono fortunato ad avere avuto una famiglia che mi sostiene e ad aver avuto accesso ad una terapia sperimentale. Per cui sono qui tre anni dopo con un altro figlio a vivere la vita al massimo”.

Infatti, dopo la diagnosi, i medici gli dissero di tornare a casa e di godere del tempo rimasto, mentre un altro gli diede da sperare contro ogni speranza, dicendo: “Ci proviamo, ne veniamo fuori”. Fu l’unico di una serie a volerlo operare, come di fatto avvenne poco dopo. In seguito all’operazione, spiega sua moglie Chris, “non poteva parlare”. E lui aggiunge: “Sì, sarebbe stato più facile mollare e dire: questo è un peso troppo grande, anche per la mia famiglia e poi il dolore, le difficoltà. Ma cosa sarebbe successo se avessi detto: basta, la finiamo qui. Sarei morto, io non avrei più sentito il dolore, le emozioni ma la mia famiglia sì. Mia moglie l’avrebbe sentito per tutta la vita. Mio figlio non avrebbe avuto nessun giorno in più da passare con me”. Sua moglie, che ha sempre supportato come una vera donna la famiglia, conferma: “Dovevamo lottare per James”.

Dopo un anno l’uomo aveva ancora cellule tumorali, ed era ancora sottoposto a cure chemioterapiche ma “la gente mi dice: non sembra, non sembra che hai un cancro. E’ perché ogni singolo momento della mia giornata lo uso per migliorare la mia capacità di vivere”. In ogni caso, a meno che la cura non si trovi, “la malattia tornerà, come e quando non lo so”. 

E poi la spiegazione sul suo desiderio di lottare per tutti, quindi contro le leggi della morte: “Ho seguito il caso di Brittany Maynard, potevo identificarmi da un certo punto di vista con ciò che diceva: la stessa malattia, circa la stessa età, entrambi con una famiglia. Ma non sono d’accordo con quanto ha deciso di fare”. Di più: “non puoi fare quella scelta”. Chris spiega che la “mia più grande paura del suicidio assistito (legale, ndr) è che vai da un medico e che se un paziente va da un dottore che lo vede come un terminale con poche speranze, non cercherà altre opzioni se non la morte”. Mentre, continua il marito, “Chris mi ha salvato la vita…ha fatto di tutto e lo ha fatto perché mi ama”.

Alla Cna Hanson ha spiegato che “quando il suicidio assistito viene accettato dalla gente minaccia le vite di tutti, specialmente dei poveri, dei vecchi, dei malati mentali, dei disabili, dei terminali”. Insomma dei più deboli della società. Anche perché i medici sarebbero portati ad arrendersi, abituandosi ad uccidere come fosse un atto di carità, “finanziando le assicurazioni governative e private con incentivi statali per ogni singola persona che decide di uccidersi”. No, continua l'uomo, “non dovremmo scegliere di essere così”, mettendo la gente “a rischio di morte, quindi minando l’integrità di tutto il sistema sanitario”.

E no, non esistono “limiti o paletti che tengano”, perché anche se la legge si riferisse solo ai malati la cui prognosi è di pochi mesi di vita, questi sarebbero comunque spinti a non lottare come invece ha fatto lui, spiegando nel video che “ogni singolo giorno è un dono e non puoi lasciartelo scappare”.