Se il realismo parla inglese
L'Inghilterra apre al nucleare mentre in Italia resta un tabù insormontabile. Per comprendere come stanno davvero le cose abbiamo interpellato due esperti italiani del settore. Il prof. Marco Ricotti e la prof.ssa Emanuela Colombo.
Pochi giorni fa Stefano Magni su queste colonne riportava la notizia che la Gran Bretagna stanzierà quasi 40 milioni di euro per nuovi programmi di ricerca sul nucleare e un fondo per sostenere le imprese che si lanceranno in questo mercato (“Londra apre al nucleare. E noi?”). Pare che l’Inghilterra si muova in controtendenza rispetto almeno a un percepito popolare nostrano che vede l’energia nucleare in declino di fama a livello mondiale. Per comprendere se le cose stiano davvero così abbiamo interpellato due esperti italiani del settore. Il prof. Marco Ricotti, Vice Direttore del Dipartimento di energia, Ordinario di Impianti Nucleari e Delegato del Rettore per la ricerca del Politecnico di Milano; e la prof.ssa Emanuela Colombo, Associato del Dipartimento di Energia del medesimo ateneo, Delegato del Rettore per la Cooperazione e Sviluppo e Titolare della cattedra Unesco per lo sviluppo sostenibile.
Prof. Ricotti qual è la situazione del nucleare nel mondo? E in Italia a che punto è il dibattito politico dopo il referendum del 2011?
Preferisco limitarmi a rispondere alla prima domanda, poiché alla seconda è molto facile: non esiste dibattito politico in Italia sul nucleare, è un tema morto. Anche se le aziende italiane e i ricercatori rimasti del settore continuano a fare la loro parte sullo scenario internazionale.
Dopo Fukushima, alcuni paesi (Germania, Italia, Svizzera) hanno deciso il phase-out o il non-restart, per dirla all’inglese. Il Giappone ha riavviato 2 reattori su 50, e altri 8 verranno rimessi in funzione entro dicembre. Vedremo quale sarà la loro scelta di politica energetica, ma credo sarà difficile che seguano l’opzione giapponese. Per il resto, i programmi nucleari di tutti gli altri paesi non sono stati sospesi, in alcuni casi stanno avendo un rallentamento. Molti hanno eseguito gli “stress-test” di controllo sui reattori oggi in funzione, per verificare le possibili risposte dei reattori a scenari tipo Fukushima. Hanno avviato cantieri di nuovi reattori anche gli USA, dopo 30 anni di blocco delle nuove costruzioni.
Cina, India, Russia, Corea del Sud, Emirati Arabi, Estremo Oriente in genere, proseguono a passo sostenuto. Un'interessante verifica sarà offerta proprio dal Regno Unito: è un'economia matura, e è nell’Occidente, poco abituato a costruire nuovi reattori, vediamo se gli inglesi avranno la forza di riavviare decisamente il settore e se subiranno problemi simili a quelli accaduti in Finlandia e in Francia, dove i ritardi hanno fatto lievitare i costi. E’ indubbio che l’incidente giapponese, verificatosi nel paese della qualità e del rigore, abbia scosso anche i più convinti sostenitori del nucleare.
Quali sono stati i danni e le conseguenze del solo incidente nucleare a Fukushima rispetto a quelle legate allo tsunami? E quale è stato il peso dei media in quell’occasione nel riportare la notizia?
L’incidente di Fukushima ha scosso tutti, anche gli addetti ai lavori, non solo la popolazione. Ma per motivi diversi. Non tanto per l’evento in sé o per gli effetti, che sono limitatissimi se comparati con la devastazione provocata del terremoto e dello tsunami (30mila morti e dispersi, 300mila edifici distrutti, contro 3 lavoratori della centrale deceduti per cause “non radioattive”, e una contaminazione che ha costretto all’evacuazione tantissime persone, ma non riserverà effetti significativi a lungo termine – si veda stima recente della WHO).
Quanto per il fatto che poteva essere evitato o almeno limitato. Tra le cause che emergono nelle valutazioni che si stanno approfondendo, appaiono sempre più evidenti alcune falle nella “cultura della sicurezza” e nell’organizzazione e controllo che da essa devono conseguire.
E’ invece stata eroica l’abnegazione degli operatori della centrale. Il ruolo dei media è, come sempre, cruciale e critico. Si possono servire realtà, verità e i propri concittadini, oppure servirsene. Soprattutto in questi casi eclatanti. Coloro che fossero interessati a questo tema possono scorrere le pagine web della BBC del tempo, dedicate all’incidente, e poi le confrontino con quelle dei nostri principali quotidiani nazionali, uno soprattutto. Io come cittadino “informato dei fatti”, mi sono fatto un’idea molto precisa al riguardo. Invito tutti a farsi la propria valutazione “informata”.
Per concludere, in che direzione si orienta la ricerca scientifica per quanto riguarda la sicurezza in campo nucleare? Su cosa puntano gli impianti delle generazioni più moderne?
Non avevamo bisogno della dimostrazione indiretta di Fukushima, ma ovviamente oggi ci si sta spingendo con ancora più forza verso i sistemi di sicurezza “passivi”, ovvero sistemi che non necessitano di energia elettrica o di interventi esterni per funzionare. Rendendo quindi non più possibili scenari tipo quello di Fukushima.
Per i reattori attualmente funzionanti, saranno investiti diversi miliardi di euro nei prossimi anni, per migliorare la risposta a sisma e allagamenti, soprattutto mediante l’istituzione di “task-forces” capaci di essere operative subito su qualsiasi impianto, con generatori elettrici trasportabili. E’ l’effetto degli stress-test.
Prof.ssa Colombo, secondo lei la scelta della Gran Bretagna è una trovata originale della nazione isolana? O una strategia lungimirante che ha già caratterizzato in altri tempi la gloria dei sudditi di Sua Maestà?
La Gran Bretagna punta a implementare alcune delle indicazioni strategiche suggerite dall’International Energy Agency (IEA) che nell’ultimo rapporto sulle previsioni energetiche pubblicato a fine 2012 ha identificato una serie di scenari per il nostro futuro. Tutti gli scenari anche se con tassi di crescita differente, prevedono un aumento del fabbisogno al 2030. Due sono di particolare interesse.
Per prima cosa lo “scenario 450” mira a rispettare, secondo le indicazioni dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), la quota massima di 450 parti per milione di anidride carbonica in atmosfera. In questo scenario che rappresenta la situazione più favorevole, si prevede un mix energetico favorevole alle rinnovabili che raggiungono la quota del 30% , mentre le fossili (petrolio, gas naturale e carbone) scendono attorno al 60%. Allo stato attuale delle tecnologie e dei processi non è ipotizzabile una penetrazione maggiore delle rinnovabili. Pertanto per contenere i livelli di gas serra in atmosfera risulta inevitabile il ricorso al nucleare che dovrebbe coprire circa il 10% restante.
E il secondo scenario?
Lo scenario “basso nucleare”, delineato a valle dell’incidente di Fukushima, fa comprendere che una rinuncia al nucleare porterebbe necessariamente a far crescere i consumi di gas e di conseguenza a non rispettare le quote massime di gas serra in atmosfera. Questo scenario avrebbe anche un impatto non trascurabile sull’aumento dei costi dell’energia con penalizzazioni pesanti a livello globale per i paesi e le realtà ad economia critica.
A livello più locale, ad esempio, in Italia le aziende sarebbero ulteriormente penalizzate da un prezzo dell’energia più alto, sulla competitività dei propri prodotti in Europa e nel mondo e le famiglie si troverebbero a pagare rincari sulle bollette.
Per i paesi in via di sviluppo quali sono gli scenari futuri?
I paesi in via di sviluppo hanno crescite demografiche elevate, economie in crescita marcata anche se inferiore a quelle dei paesi emergenti e un sistema energetico attuale non adeguato in quantità e qualità a supportare lo sviluppo locale autonomo e sostenibile. Questi paesi richiedono una crescita consistente della penetrazione dell’energia elettrica per i servizi pubblici, l’agricoltura, le imprese, e servizi energetici più moderni per gli usi domestici come la cottura e l’illuminazione. Se la comunità internazionale sarà schierata con onestà a loro supporto, saranno i grandi protagonisti della crescita dei consumi globali.
Ma allora in questo scenario che delinea un impegno etico della comunità internazionali nei confronti anche dei paesi a economia più critica, come si colloca la teoria della decrescita “felice”?
Per parlare di decrescita per prima cosa occorre chiarirsi sui termini. In termini energetici una decrescita dei consumi è piuttosto difficile da prevedere: nessuno degli scenari di previsione della IEA (ma anche di altre agenzie di riferimento in materia di energia) prevede una riduzione dei consumi nei prossimi 20-30 anni. Se da una parte i paesi sviluppati aumenteranno poco i loro consumi, i paesi emergenti e i paesi in via di sviluppo (più numerosi) avranno sempre più fame di energia. Una riduzione degli sprechi è invece una via certamente perseguibile e perseguita da tempo.
Le tecnologie migliorano, si aumentano le efficienze, si applicano normative più efficaci in materia di risparmio nell’edilizia, di riduzione delle emissioni nei trasporti, si ricercano fonti alternative.
In termini più generali spesso la teoria della decrescita è intesa come un’ideologia che rimanda alla bellezza e alla purezza dello stato di natura. Riduzione di tutti i consumi, tensione verso l’autosufficienza, disprezzo per il denaro, diniego della tecnologia nemica della natura, controllo e riduzione delle nascite. L’umanità deve ridurre i propri sprechi, è un impegno nei confronti delle generazioni future e del creato ma la teoria della decrescita, così come formulata, non è una strada perseguibile soprattutto se pensiamo al cosiddetto “ultimo miliardo”.
Cosa intende?
Un miliardo di persone che non ha accesso all’acqua potabile né all’energia elettrica, che non può beneficiare dei servizi sanitari né educativi, che vive con meno di due dollari al giorno e che soffre di malnutrizione cronica e che la comunità internazionale, anche attraverso gli obiettivi del millennio cerca di farsi carico. Un miliardo di cittadini del mondo che vivono in quello “stato di natura” da cui da tempo desiderano ardentemente uscire.