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FOCUS

Scuola e lavoro, riforme di Renzi e statalismo

Lo statalismo è il vizio capitale della filosofia politica di Renzi e il jobs act e la riforma della scuola lo confermano. Soprattutto per la scuola le mosse annunciate sono preoccupanti: dovesse venire attuata secondo queste linee per la libertà di educazione si chiuderebbero anche quei pochi spazi che ci sono oggi.

Politica 24_02_2015
Matteo Renzi

Venerdì scorso il governo ha approvato lo schema del decreto, adesso all’esame delle Commissioni Lavoro del Senato e della Camera, con cui dovrebbe iniziare praticamente la riforma del contratto di lavoro (jobs act).  L’altro ieri, domenica, intervenendo in conclusione di un convegno promosso dal PD sul tema “La scuola che cambia, cambia l’Italia”, Renzi ha annunciato a grandi linee la riforma della scuola che nei prossimi giorni il Consiglio dei Ministri prenderà in esame.

Con queste due riforme, giunte alla ribalta al compiersi del primo anno di attività dell’attuale governo, nel bene e nel male cominciano a delinearsi più chiaramente le forze su cui Renzi si appoggia, e ad assumere più precisi lineamenti  la sua filosofia politica e quindi il suo programma. Per quanto riguarda la disciplina del  contratto di lavoro l’innovazione è importante e significativa: con il “contratto di lavoro a tutele crescenti”, valido per chi viene assunto dal 1° marzo 2015 in avanti, si apre una nuova fase nella storia del rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel nostro Paese. Le nuove assunzioni (molto incentivate dal fatto che lo Stato si fa totalmente carico dei relativi contributi per assistenza sanitaria e pensione) avvengono in un nuovo quadro giuridico caratterizzato da procedure di licenziamento più semplici per l’impresa, ma non per questo prive di garanzie e tutele per i lavoratori. Diversamente da quanto viene proclamato l’impatto sul lavoro precario sarà invece relativamente modesto. In un modo o nell’altro continuerà a essercene tantissimo, ma il suo superamento dipende più dalla ripresa dell’economia che dalle leggi. 

Una scia di sangue segna in Italia il cammino dei tentativi di riforma del contratto di lavoro: da Ezio Tarantelli nel 1985 a Marco Biagi nel 2002 diversi giuslavoristi impegnati come esperti in progetti di riforma di tale contratto caddero vittime di attentati terroristici. Se dunque Renzi è riuscito senza drammi a portare a compimento il suo progetto ciò significa che il suo governo gode di sostegni così forti da disarmare la mano anche delle forze più oscure. Non si può che esserne lieti sia per lui che per il Paese.

Resta poi da vedere, ma questo è decisivo, se un apparato statale sgangherato come il nostro sarà in grado di gestire con efficacia i nuovi meccanismi, tanto più nel momento in cui – in armonia con il centralismo che è una delle chiavi di volta della filosofia politica di Renzi – nientemeno che una nuova Agenzia nazionale per il lavoro entra in campo sottraendo alle Regioni la competenza che sin qui avevano in materia. Il problema è insomma sempre lo stesso: Renzi impugna ogni volta la spada dello Stato senza preoccuparsi se sia d’acciaio o di pasta frolla. Forse pensa che di questo debba preoccuparsi qualcun altro, ma chi? Graziano Del Rio, Babbo Natale, Lancillotto? Lui no di certo. Innanzitutto perché de minimis non curat praetor, e poi perché con tutto quel che ha già da correre su e giù tra palazzo Chigi e Bruxelles gli resta solo il tempo per qualche “twitter”.

Se nel caso della riforma del lavoro i mezzi sono quelli  che sono ma il fine è apprezzabile, il discorso cambia nel caso della riforma della scuola. Qui lo statalismo, il vizio capitale della filosofia politica di Renzi e dei suoi, ha effetti nefasti non soltanto sul “come” ma anche sul “che cosa”. Per rendersene conto basti pensare a un abbinamento che fa accapponare la pelle: quello che Renzi fa tra la scuola pubblica e la Rai, della quale pure ha annunciato l’imminente riforma.

Nella sua visione l’una e l’altra sono come le due braccia di un medesimo soggetto educante che in fin dei conti è lo Stato o meglio una nuova burocrazia statale scolastica o radiotelevisiva fatta di gente che dalle sue varie cattedre reali o virtuali avrà il compito di ripensare l’identità italiana, e poi di far digerire a tutto il popolo il frutto della sua elaborazione, inevitabilmente orientata alle “magnifiche sorti e progressive”.

Dei prevedibili sviluppi di tale progetto non mancano oggi gravi preannunci: si pensi ad esempio alla campagna in atto per introdurre surrettiziamente l’educazione “gender” nelle scuole statali sulla testa sia dei genitori degli allievi che degli stessi professori titolari dei corsi. La scuola statale italiana è un’agenzia educativa pensata sin dall’origine per essere a gestione centralizzata e sotto controllo politico. Nel momento dunque in cui, senza modificarne la struttura, essa viene formalmente aperta alla società civile finisce in realtà per cadere in mano alle più diverse lobbies; e innanzitutto alle più impresentabili. 

È perciò assai preoccupante che la scuola rinnovata cui pensano Renzi e il suo ministro Giannini non sia altro che una versione (presunta) più efficiente e brillante della vecchia scuola statale, il cui monopolio viene non solo confermato ma anzi rafforzato. Malgrado tutta la sua pretesa di essere il grande riformatore, benché sollecitato da diversi contributi alla sua consultazione sulla “buona scuola” Renzi si è infatti guardato bene dall’aprire un dibattito di fondo sul modello generale di scuola pubblica in Italia. Nel nostro Paese sussiste ancora il monopolio statale della scuola pubblica senza oneri per le famiglie degli allievi. È l’ultimo monopolio che ancora esiste in Italia; e che non  esiste più, o non è mai esistito, nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione Europea compresi tutti gli altri paesi membri più importanti e popolosi, dalla Gran Bretagna alla Germania, dalla Francia alla Spagna. È un monopolio statale che, come tutti i monopoli del genere, fornisce fra grandi sprechi un pessimo servizio.

Senza dubbio la rottura di questo monopolio non è una facile impresa: implica infatti il confronto con il più forte blocco di interessi neo-corporativi oggi esistente nel nostro Paese. Soltanto quindi attraverso un ben studiato processo di transizione lo si può attuare senza costi sociali insostenibili. Un governo che si sta dimostrando capace di avviare riforme che sembravano impossibili potrebbe però, se lo volesse, avere anche il coraggio di un impegno in tal senso. Se dunque non lo fa non è perché non può, è perché non vuole. Rendere buono il prodotto di un tale monopolio è impossibile, e i fatti non cessano di dimostrarlo.

Anche però se ciò fosse (come invece non è) tale monopolio continuerebbe ad essere inaccettabile in linea di principio: riservare allo Stato il monopolio dell’educazione dei propri cittadini è infatti un grave vulnus alla democrazia. Purtroppo però questa preoccupante pseudo-riforma non incontra  nemmeno la resistenza delle forze politiche che per loro natura dovrebbero opporsi a tale deriva illiberale. In questo senso il centro-destra ha ritrovato nel peggio la sua unità. Infatti né  l’NCD dentro il governo né  le analoghe formazioni che ne sono fuori stanno alzando un dito contro questa pseudo-riforma che, nella misura in cui dovesse passare e poi venire attuata, toglierebbe alla libertà d’educazione anche i pochi spazi che ancora le restano.