Schwab o Lagarde, a Davos la musica non cambia: è sempre Grande Reset
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Klaus Schwab, ex-Presidente del World Economic Forum di Davos, rivela trattative con Christine Lagarde, presidente della Bce: vuole chiudere il suo mandato per presiedere il Wef. Giri di poltrone in un circolo ristretto della finanza.

Non è un momento felice per Klaus Schwab. Nell’aprile 2024, aveva annunciato con una mail allo staff che entro la fine dell’anno avrebbe lasciato la carica di Presidente esecutivo, con un passaggio di testimone a favore del numero due, Børge Brende (1965-), ex-ministro degli esteri norvegese, Presidente del Wef dal 2017 nonché membro dello steering committee del Bilderberg. Inizialmente Schwab intendeva mantenere per sé la carica di Chair del Board di Davos, per poi avviare la transizione entro gennaio 2027, prima del solito incontro annuale.
Una transizione pianificata su tempi lunghi, in modo da trovare la persona adeguata a ricoprire tale posizione e per assicurare la continuità operativa dell’organizzazione. E invece, in una riunione straordinaria del Wef, tenutasi in fretta e furia a Pasqua 2025, Schwab aveva rassegnato le dimissioni con effetto immediato, accettate (richieste?) dal Board. Schwab è stato travolto da un’inchiesta del Wall Street Journal nel giugno 2024, dove erano emerse accuse decisamente pesanti sul “clima tossico” dell’ambiente di lavoro al Wef: molestie sessuali, licenziamenti immotivati, discriminazioni ai danni delle donne in gravidanza, razzismo nei confronti degli afroamericani. Il Wef, per evitare ricadute di immagine negative sul mondo incantato di Davos, aveva anche aperto un’inchiesta interna sul suo fondatore, con accuse di cattiva condotta finanziaria sua e della moglie Hilde.
Il passaggio del testimone è avvenuto a favore dell’ottantenne ex presidente Nestlé, Peter Brabeck-Letmathe, in qualità di Chair ad interim, a conferma del fatto che Schwab ha dovuto prendere la decisione in tempi brevi e sotto forti pressioni, per limitare i danni: non era quindi sicuramente Brabeck-Letmathe l’eletto alla successione. Non c’è motivo di dubitare della sincerità delle dichiarazioni rese da Schwab al Financial Times, secondo cui il testimone doveva invece passare a Christine Lagarde, Presidente della Banca Centrale Europea dal 1° novembre 2019 e membro influente, e di lunghissima data, del direttivo di Davos. Siccome il mandato della Lagarde alla guida dell’Istituto di Francoforte scadrà il 31 ottobre 2027, è ragionevole pensare che fosse davvero lei la prescelta: se le cose fossero andate secondo i piani, Schwab si sarebbe infatti dimesso entro gennaio 2027, nominando un presidente ad interim che dopo pochi mesi avrebbe ceduto il posto alla Lagarde. E nessuno avrebbe avuto nulla da ridire.
E invece, con le sue incaute dichiarazioni alla stampa, Schwab ha messo in crisi il piano: se la Lagarde lasciasse il suo ruolo istituzionale anticipatamente per andare a guidare la famosa Ong svizzera – per di più con un raddoppio di retribuzione a 1 milione di euro annui – confermerebbe chi accusa il malsano connubio pubblico-privato incubato a Davos, fatto di accordi e di porte girevoli tra ruoli anche in potenziale conflitto di interesse. Forse la Lagarde, a questo punto, dovrà non solo rimanere alla guida della Bce fino alla fine naturale del mandato, ma potrebbe essere “costretta” a rinunciare all’offerta anche dopo. Per quale motivo? Perché le apparenze vanno salvate, per non confermare in alcun modo quelle teorie complottistiche che denunciano quella fitta rete di relazioni e di potere – economico, finanziario e politico –, che falsifica sia le regole democratiche che il libero mercato, rendendoli meri specchietti per le allodole.
Al di là di chi guida o guiderà il Forum di Davos, il punto centrale è che non bisogna tanto guardare le “pedine”, per quanto importanti, ma piuttosto la “scacchiera”: il focus non deve essere sul frontman dell’iniziativa, che può cambiare ed è comunque secondario, ma piuttosto sull’iniziativa stessa, che rimane nel tempo e non risente dell’avvicendarsi delle varie comparse sulla scena, per quanto influenti e appariscenti. Ci troviamo di fronte a una community caratterizzata dalla cooperazione ai massimi livelli tra colossi industriali e finanziari, importanti leader politici mondiali, realtà sovranazionali, banche centrali, primarie fondazioni, accademia, media e influencer globali. L’obiettivo è superare un modello economico in parte ancora fondato sulla libertà economica della piccola e media impresa privata e su base prevalentemente nazionale, giudicato non più sostenibile, per definire una governance politica ed economica sovranazionale, basata sulla pianificazione e sul controllo. Si tratta, insomma, di un intreccio incestuoso di enormi interessi economici-finanziari e di potere saldati a visioni ideologiche che pretendono di creare un “mondo migliore” e un “uomo nuovo”, secondo logiche tecnocratiche e transumane.
Che il prossimo Chair del Board di Davos sia o meno la Lagarde, l’iniziativa del “Great Reset del capitalismo” è destinata a proseguire, anche se dopo la svolta negli Stati Uniti pare confinata all’Europa e a quella parte dell’Anglosfera guidata dal Regno Unito, cioè il Canada di Carney (anche lui ex-banchiere centrale sia del Canada che del Regno Unito) e l’Australia di Albanese. L’alleanza globalista pubblico-privata alla base del “capitalismo” clientelare promosso da Davos risponde a logiche tecnocratiche e sovranazionali, e quindi il nuovo “Papa” di Davos sarà scelto all’interno di quel ristrettissimo mondo autoreferenziale fatto di tecnocrati globalisti “apolidi” non eletti, che passano da una carica all’altra con grande nonchalance, con una certa preferenza per le grandi banche d’affari, le Banche centrali e i ruoli di governo. Chissà, il nostro Mario Draghi potrebbe anche candidarsi.
Maurizio Milano è autore di Il Pifferaio di Davos (D'Ettoris Editori, 2024. Introduzione di Marco Respinti)