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DDL Zan

Schieramenti in frantumi, il Ddl Zan acuisce le divisioni

Dopo la protesta del Vaticano contro il Ddl Zan e la dichiarazione di Draghi, la situazione politica è in evoluzione e alimenta i trasversalismi, anche perchè questo governo ha un’amplissima maggioranza.

Gender Watch 25_06_2021

La nota del Vaticano sul Ddl Zan (vedi qui e qui) e la dichiarazione del premier Mario Draghi, che ieri ha ribadito il carattere laico e non confessionale dello Stato italiano, rimarcando la libertà del Parlamento, sono due novità destinate a produrre effetti notevoli sulla già precaria struttura delle due coalizioni partitiche.

Si era detto che con l’avvento dell’ex presidente della Banca centrale europea a Palazzo Chigi la politica italiana sarebbe cambiata. Anche Giuseppe Conte era un tecnico prestato alla politica, ma ha governato con maggioranze chiare e definite: prima quella giallo-verde, poi quella giallo-rossa. Draghi, invece, ha dato vita a un governo di emergenza con quasi tutti dentro, che ha finito per annacquare le distinzioni partitiche e per mettere in crisi le identità e le appartenenze. Su entrambi i fronti, infatti, la situazione è in evoluzione e la polemica sul Ddl Zan sta alimentando i trasversalismi sullo scacchiere politico.

Il presidente della Camera, Roberto Fico, ieri ha subito fatto capire da che parte sta. «Il Parlamento è sovrano, non accettiamo ingerenze», ha tuonato la terza carica dello Stato. I grillini sono compatti, almeno su questo, e in linea teorica difendono senza tentennamenti il disegno di legge contro l’omofobia. Ma al Senato i numeri potrebbero non essere così scontati, visto che molti pentastellati sono certi di non essere rieletti e potrebbero mettersi di traverso, impedendo l’approvazione di quel provvedimento.

Il segretario del Pd, Enrico Letta, difende il Ddl Zan, affermando che non limita in alcun modo la libertà d’espressione e va approvato per garantire più libertà a tutti, ma anche tra i suoi qualche riserva su quel testo di legge c’è.

Nel centrodestra la situazione è ancora più frastagliata. C’è un fronte che taglia Lega e Forza Italia e che è favorevole al disegno di legge sull’omofobia. È comunque minoritario ma c’è. L’unico partito che si oppone radicalmente è Fratelli d’Italia, compatto nel paventare rischi per la libertà d’espressione in caso di approvazione definitiva del Ddl Zan.

Ma non è solo sui temi sensibili che gli schieramenti rischiano di andare in frantumi. Sono tante le questioni pratiche che mettono a rischio la loro compattezza. A cominciare dalle liti e dai veti incrociati sui nomi dei candidati sindaci nelle principali città chiamate al voto nel prossimo autunno.

Il Pd ha dovuto fare le primarie a Bologna e a Roma per evitare spaccature, ma non ha corso il rischio di violare le norme anti-assembramento perché l’affluenza ai gazebo non è stata massiccia. Nella capitale i votanti sono stati 45.000, meno della metà di quanti andarono a votare per Ignazio Marino nel 2013 e meno delle primarie del 2016, quando nelle urne Roberto Giachetti prese il 25 per cento e fu sconfitto dall’attuale sindaco, Virginia Raggi. Roberto Gualtieri, vincitore delle primarie per Roma, ha subito attaccato la Raggi, a riprova delle distanze che attualmente dividono Pd e Cinque Stelle. Si vedrà cosa accadrà in caso di ballottaggio.

I Cinque Stelle si stanno autodistruggendo con lotte intestine senza esclusione di colpi. Dopo le battaglie legali con Rousseau per l’utilizzo dei dati degli iscritti, ora si litiga sul simbolo e la disputa tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte potrebbe preludere a un divorzio tra i due, con l’ex premier pronto a fondare un suo partito. Chi se la gode è Luigi Di Maio, che vede litigare i due e intanto consolida il suo potere, sia al governo come ministro degli esteri che come leader pentastellato.

Nel centrodestra si fa fatica a trovare la quadra sui candidati sindaci, in particolare a Milano, dove il primo cittadino uscente, Giuseppe Sala, tanto più dopo l’uscita dal Pd e l’ingresso nei verdi europei, potrebbe addirittura vincere al primo turno, anche con i voti dei moderati di centrodestra. Salvini, Meloni e Berlusconi non hanno ancora trovato uno sfidante degno di questo nome e quindi Sala imperversa sulla scena elettorale senza alcuna opposizione.

I leader dei tre partiti di centrodestra sono in realtà più concentrati sull’assetto da dare allo schieramento: federazione o partito unico. Matteo Salvini aveva proposto la prima, Silvio Berlusconi punta sul secondo. La Meloni non è interessata a nessuna delle due prospettive perché è sicura di poter scavalcare la Lega nei sondaggi e diventare primo partito, con automatica conquista della premiership. Tutto questo, però, agli elettori non interessa più di tanto. Nella ricostruzione post-pandemia l’elettorato di centrodestra si aspetterebbe ricette efficaci su economia, lavoro, scuola e tanto altro. Le alchimie della politica sembrano lontane anni luce dai bisogni reali degli italiani.