San Romualdo
«Fa’ attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci. L’unica via per te si trovi nei Salmi, non lasciarla mai. Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti, cerca, ora qua ora là, di cantare i Salmi con il cuore e di capirli con la mente». Dalla Piccola Regola di san Romualdo (c. 951-1027), fondatore dei Camaldolesi
Il primo imperativo nella vita del fondatore dei Camaldolesi, san Romualdo (c. 951-1027), è stato la ricerca di Dio. Ed è per questo che egli andò continuamente in cerca di una santa solitudine, fondando eremi e piccoli monasteri in diverse parti d’Italia, in cui poter coltivare il necessario raccoglimento interiore.
Romualdo era nato a Ravenna da una famiglia nobile. Si ritiene che da un fatto di sangue in cui fu coinvolto il padre, il duca Sergio degli Onesti (che aveva sfidato a duello un familiare per il possesso di un podere), originò la sua risoluzione alla vita religiosa. Di certo c’è che Romualdo, intorno ai 20 anni, decise di entrare nell’antico monastero di Sant’Apollinare in Classe. Qualche tempo dopo si spostò a Venezia, dove conobbe Guarino, un religioso allora di passaggio nella Laguna e abate a San Michele di Cuxa, monastero benedettino nella fascia dei Pirenei orientali.
Romualdo volle seguire Guarino nella sua abbazia e lo stesso fece il doge Pietro I Orseolo, convinto dall’abate ad abdicare (Venezia si trovava in una situazione politica surriscaldata, che era sfociata nell’uccisione del precedente doge) e anche lui capace di compiere l’ascesa alla santità. Il santo ravennate, cresciuto in sapienza e grazia, tornò in Italia circa dieci anni più tardi. Iniziò a fondare eremi, rinunciando più volte alla dignità abbaziale. L’imperatore Ottone III (980-1002), suo ammiratore, gli impose verso il 1001 di accettare l’incarico di abate a Sant’Apollinare in Classe, che il religioso lasciò comunque un anno dopo per il desiderio di una maggiore contemplazione. Continuò a peregrinare in vari posti, da Montecassino all’Istria, dove si ritirò in una caverna che da allora è conosciuta come Grotta di Romualdo.
Romualdo si recò poi in una radura aretina detta Campo di Maldolo (Campus Maldoli), al confine con la Romagna, a circa 1.100 metri di altitudine, e vi fondò l’eremo di Camaldoli. Su incoraggiamento del vescovo eresse cinque celle e un piccolo oratorio, dando inizio alla storia della Congregazione camaldolese, un ramo dell’Ordine benedettino. Romualdo intendeva coniugare la tradizione monastica occidentale, più rivolta alla vita cenobitica, e la tradizione orientale, specie quella degli antichi Padri del deserto, più solitaria. Ecco perché la sua congregazione si caratterizzò per la contemporanea presenza di un eremo e di un monastero, presenza poi simbolicamente espressa da due colombe che bevono da un unico calice. L’idea di fondo era sempre il distacco dalle cose terrene, come si legge nella sua Piccola Regola, affiancata a quella di san Benedetto: «Siedi nella tua cella come nel Paradiso. Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle».
Il suo primo biografo fu san Pier Damiani (1007-1072), che scrisse una Vita Romualdi dopo essere entrato in contatto con i camaldolesi e aver attinto informazioni dai discepoli che lo avevano conosciuto personalmente.
Romualdo insegnava la necessità di una vita di penitenza e preghiera, anzitutto con il suo esempio concreto. Non faceva mancare le esortazioni (si tramanda anzi che il paese di Verghereto trae il suo nome dal fatto che il santo fu cacciato a “vergate” da alcuni monaci, insofferenti per i suoi continui richiami alla disciplina), che venivano sempre dal suo amore per Dio. Scriveva nella Piccola Regola: «Fa’ attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci. L’unica via per te si trovi nei Salmi, non lasciarla mai. Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti, cerca, ora qua ora là, di cantare i Salmi con il cuore e di capirli con la mente».