San Charbel Makhluf
Il grande taumaturgo ed eremita libanese san Charbel Makhluf (1828-1898), in onore del quale il 14 settembre 2017 è stata inaugurata in Libano una statua alta 27 metri e pesante 40 tonnellate, era il quinto figlio di due contadini, che lo chiamarono Youssef Antoun (Giuseppe Antonino)....
Il grande taumaturgo ed eremita libanese san Charbel Makhluf (1828-1898), in onore del quale il 14 settembre 2017 è stata inaugurata in Libano una statua alta 27 metri e pesante 40 tonnellate, era il quinto figlio di due contadini, che lo chiamarono Youssef Antoun (Giuseppe Antonino).
Rimase orfano di padre ad appena tre anni. La madre si risposò due anni dopo con un uomo di grande religiosità che lo indirizzò alla preghiera quotidiana. Da ragazzino iniziò a occuparsi del gregge e manifestò l’inclinazione alla vita contemplativa. Come riferisce la giornalista Patrizia Cattaneo, autrice di alcuni libri sul santo, alla sua mucca diceva: “Aspetta che finisca di pregare, perché non posso parlare con te e con Dio allo stesso tempo. Lui ha la precedenza”. A 22 anni fuggì di casa e cominciò il noviziato nell’Ordine libanese maronita, il più antico della Chiesa cattolica di rito maronita: in onore di un martire antiocheno, scelse il nome di Charbel, che significa “storia di Dio”.
Studiò filosofia e teologia sotto la guida erudita di Nimatullah Youssef Kassab, anche lui canonizzato. Fu ordinato sacerdote nel 1859. Tornò allora nel monastero di San Marone ad Annaya, dove tempo prima aveva emesso i voti perpetui, e visse in totale obbedienza ai superiori. La sua quotidianità era fuori dall’ordinario. Digiunava e vegliava incessantemente, stando per ore inginocchiato davanti al Santissimo. La Messa era il cuore della sua giornata e vi si preparava con grande cura. Dal monastero usciva solo su ordine dei superiori per visitare i malati o amministrare i sacramenti. Poiché sentiva il bisogno di un maggiore raccoglimento con Dio, nel 1875 chiese il permesso di ritirarsi in un eremo appartenente al monastero. Là trascorse gli ultimi 24 anni della sua vita terrena, morendo in odore di santità alla vigilia di Natale del 1898, dopo otto giorni di agonia conseguenti a un ictus che lo colse mentre sollevava l’Ostia e il calice consacrati.
Un liquido miracoloso
Dalla fossa in cui fu sepolto iniziò presto a comparire di notte una luce intensissima, visibile in tutta la vallata, che richiamò una moltitudine di persone. Anche per il timore che la sua salma potesse essere trafugata, i monaci decisero di trasferirla in una cappella all’interno del monastero. Fu allora che si constatò che il corpo era ancora incorrotto: da esso trasudava un liquido rossastro, che aveva proprietà miracolose e continuò a uscire per 79 anni, fino al 1977, quando Charbel fu proclamato santo. Il medico Georges Chokrallah, tra i testimoni al processo di beatificazione, disse: “Spinto da curiosità scientifica, ho cercato di scoprire il segreto di quel corpo e di quel liquido. Dopo averli esaminati per circa 17 anni, due o tre volte l’anno, la mia opinione personale, basata sullo studio e sull’esperienza, è che fossero imbevuti di una misteriosa forza soprannaturale”.
Pellegrini di varie religioni
Un aumento singolare dei casi di guarigione si verificò alla riapertura della bara davanti a una commissione di tre medici nel 1950, in pieno Anno Santo, che attirò pellegrini non solo cristiani. “Mi hanno citato dei casi di ciechi guariti, di gobbi raddrizzati, di paralitici che recuperano l’uso delle membra venendo a pregare nella cripta e stropicciando la parete della tomba. Cosa ancora più notevole: i miracolati non sono solo cristiani ma anche musulmani. E per questo è corsa la voce in tutto l’Islam e i malati accorrono da tutte le parti per pregare ad Annaya. Sono stato io stesso sulla montagna di Djebail. Lo spettacolo è straordinario”, scrisse all’epoca monsignor Nasri Rizcallah, riferendo di varie conversioni che si accompagnavano alle guarigioni fisiche.
Nell’omelia per la canonizzazione di Charbel, Paolo VI disse: “Lo spirito della vocazione eremitica che si manifesta nel nuovo Santo, lungi dall’appartenere ad un tempo ormai passato, ci appare molto importante, per il nostro mondo, come per la vita della Chiesa. La vita sociale di oggi è spesso contrassegnata dall’esuberanza, dall’eccitazione, dalla ricerca insaziabile del conforto e del piacere, unita ad una crescente debolezza della volontà: essa non riacquisterà il suo equilibrio se non con un accrescimento del dominio di sé, di ascesi, di povertà, di pace, di semplicità, di interiorità, di silenzio […]. Per salvare il mondo, per conquistarlo spiritualmente, è necessario, come vuole Cristo, essere nel mondo, ma non appartenere a tutto ciò che nel mondo allontana da Dio. L’eremita di Annaya ce lo ricorda oggi con una forza incomparabile”.