Salvator Mundi, il volto di Gesù secondo Antonello
Sul volto di Cristo, come dice san Paolo, rifulge la conoscenza della gloria divina. Con questa verità si sono dovuti confrontare, nei secoli, gli artisti. Tra loro, uno dei più rivoluzionari ritrattisti del Rinascimento, Antonello da Messina. Nel suo Salvator Mundi, Gesù è una presenza fisica e concreta. L’elemento che cattura di più è lo sguardo…
Antonello da Messina, Salvator Mundi, Londra - National Gallery
Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto. (Sal 27, 8-9)
Cristo, dice san Paolo ai Colossesi, è immagine del Dio invisibile. Immagine, dunque realtà percepibile, su cui - sul cui volto, specifica l’apostolo rivolgendosi ai Corinzi - rifulge la conoscenza della gloria divina (cfr. 2 Cor 4).
Con queste autorevoli verità di fede si sono dovuti confrontare, nei secoli, gli artisti cimentatisi nella rappresentazione del Dio incarnato. Che ha assunto, nel corso del tempo, fisionomie diverse: dal giovane imberbe delle catacombe e dei sarcofagi paleocristiani, dove spesso compare sotto le sembianze del Buon Pastore, con capelli ricciuti e una bellezza apollinea, all’adulto barbuto, maestoso e severo come un filosofo antico. Fino all’avvento del Mandylion di Edessa e delle immagini ritenute acheropite - non dipinte da mano d’uomo - che diffondono, in Oriente come in Occidente, un ritratto di Gesù coerente con le sue sembianze storiche. E se la bellezza adolescenziale rimanda alla dimensione dell’eternità di Dio, nel Suo aspetto maturo si fanno, invece, coesistere la saggezza umana e l’onnipotenza divina.
Poi arriva Antonello, annoverato tra i più rivoluzionari ritrattisti del Rinascimento, formatosi nella bottega napoletana di Colantonio, attivo presso la corte di Alfonso d’Aragona, dove il messinese conobbe e approfondì la passione descrittiva e mimetica degli artisti fiamminghi da cui apprese anche la tecnica della pittura a olio. Il suo Salvator Mundi, frutto di questi innesti culturali, è un sublime ritratto sacro.
La tavola ha le dimensioni ridotte tipiche di un’opera pensata per pratiche di devozione privata. Se nell’insieme sono evidenti le influenze nordiche, d’altra parte Antonello scelse di adottare, per questo dipinto, la ieraticità delle icone cui, però, riuscì a conferire una carica di umanità non riscontrabile nei manufatti bizantini.
Gesù, in posizione frontale, è una presenza fisica e concreta che occupa un volume preciso, definito dallo scorcio del gesto benedicente e dalle dita della mano sinistra ripiegate sul parapetto. Quest’ultimo, con tanto di cartiglio spiegazzato e sporgente - sopra il quale l’artista annotò, per la prima volta nella sua carriera, data e firma - ha la funzione di fondere e confondere, lo spazio reale e quello dipinto, invitando l’osservatore a entrare in profondità.
Perché è dalla profondità dello sfondo scuro che emerge la figura di un Uomo che affermò, in tutta umiltà, di essere il Figlio di Dio. La veridicità di questa dichiarazione fu affidata dal pittore alla semplicità dei Suoi abiti dimessi - la veste rossa e il manto blu - cui contrappose un’analisi puntuale e meticolosa della barba e delle ciocche dei lunghi capelli, schiarite dalla calda e avvolgente luce proveniente da una fonte alla sinistra di chi osserva.
L’elemento che più attrae e cattura è lo sguardo. Così intenso. E fisso in chiunque accetti di sostenerlo. Perché chiunque, anche noi, come del resto san Paolo, possa, letteralmente e visivamente, sentirsi afferrato da Cristo che ha, volendo, già trovato ciascuno di noi.