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CONTINENTE NERO

Rwanda a 30 anni dal genocidio dei Tutsi

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Nel 1993 gli abitanti del Rwanda erano 7,9 milioni. Nel 1995 si erano ridotti a 5,6 milioni, i sopravvissuti al più cruento sterminio in Africa nel XX secolo, il genocidio dei Tutsi, di cui ricorre il 30mo anniversario

Esteri 06_04_2024
L'ossario e memoriale del genocidio in Rwanda (La Presse)

Nel 1993 gli abitanti del Rwanda erano 7,9 milioni. Nel 1995 si erano ridotti a 5,6 milioni, i sopravvissuti alla più cruenta e terrificante strage compiuta in Africa nel XX secolo, il genocidio dei Tutsi. Nel 1994, dal 7 aprile al 15 luglio, erano state uccise da 800mila a oltre un milione di persone: 1.074.017, secondo le stime governative ufficiali, il 93,7% delle quali di etnia Tutsi e le rimanenti di etnia Hutu. Il genocidio era stato pianificato e preparato da tempo dagli Hutu che, non paghi di detenere il potere e di essere maggioritari, avevano deciso di sterminare l’etnia minoritaria Tutsi e ridurla a dimensioni irrilevanti come già era successo della terza etnia del paese, i Twa, pigmei ridotti a meno dell’1% della popolazione e confinati nelle inospitali foreste equatoriali. L’occasione per scatenare i massacri era stato l’attentato che aveva causato la morte del presidente Hutu Juvénal Habyarimana. Il 6 aprile l’aereo su cui viaggiava insieme al presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, era stato abbattuto da un missile terra-aria. Ne furono accusati i Tutsi.

Nei mesi precedenti la leadership Hutu aveva istigato la popolazione contro di loro, soffiando sul fuoco dell’avversione tribale. L’emittente Radio Mille Colline era stata usata per incitare all’odio e al disprezzo degli “scarafaggi”, così venivano chiamati i Tutsi. “Le tombe sono pronte, in attesa di essere riempite” era uno degli appelli ricorrenti dell’emittente. Non sarebbero bastate. Anche assumendo come corretta la stima di circa 800mila morti, nei 100 giorni successivi all’attentato in media furono uccise almeno sei-sette persone al minuto, uomini, donne e bambini. Mancarono tempo e voglia di dare sepoltura a tutte.

Era stato redatto un elenco dei Tutsi da uccidere per primi. Il massacro iniziò da loro. Il giorno dopo l’attentato furono istituiti dappertutto dei posti di blocco dove gli interahamwe, una milizia paramilitare armata e addestrata dai pianificatori del genocidio, e altri cittadini “volontari” fermavano e identificavano la gente: liberi gli Hutu, trattenuti e uccisi i Tutsi. Proprio come i leader Hutu avevano sperato, al genocidio parteciparono centinaia di migliaia di civili. Gli Hutu contrari, in seguito definiti “moderati”, assistettero ai massacri e molti ne furono a loro volta vittime, puniti come traditori della causa. 

L’abisso di crudeltà e ferocia di quei 100 giorni va oltre ogni immaginazione. Si stima che tra 250mila e mezzo milione di donne furono violentate e lo stupro perpetrato da uomini ammalati di Aids si dice addirittura fosse pianificato, come ulteriore arma di genocidio. Neanche i bambini furono mai risparmiati. Si deve a questo il numero relativamente basso di orfani, 95mila, molti dei quali assistettero all’esecuzione dei famigliari. I minorenni uccisi furono circa 300mila.

Il modo in cui tutte quelle povere creature morirono aggiunge orrore all’orrore. Si dice che i leader Hutu nei mesi precedenti avessero importato centinaia di migliaia di panga, lunghi coltelli simili ai machete. Non tutti concordano su questo. Sta di fatto che i panga sono attrezzi domestici e agricoli di uso comune in Rwanda e in tutta l’Africa orientale. È con i panga e con altri attrezzi da lavoro – mazze, martelli, asce – che sono state uccise centinaia di migliaia di persone. Fiammiferi e benzina sono serviti a ucciderne tante altre, a decine e centinaia imprigionate in case e persino in chiese date poi alle fiamme. È la tragica conferma che non sono le armi a scatenare le guerre, ma la volontà umana. In seguito i superstiti hanno raccontato di gente che ha pagato per essere uccisa a colpi di arma da fuoco, per ottenere per sé e per i propri famigliari una morte meno dolorosa. 

Il 4 luglio 1994 i soldati Tutsi del Fronte Patriottico Rwandese entrarono nella capitale Kigali guidati dal loro leader, Paul Kagame, e misero in fuga governanti e militari Hutu. Pochi giorni dopo il genocidio finiva.  Da allora il potere è sempre stato saldamente nelle mani di Paul Kagame. Adesso i rwandesi sono 14 milioni. Più del 60% hanno meno di 30 anni, sono nati dopo il 1994. Tuttavia la memoria del genocidio permea ancora tutta la popolazione, anche loro. Non c’è famiglia che non abbia avuto vittime o carnefici tra i propri famigliari e ci sono voluti decenni per individuare e punire almeno una parte dei responsabili del genocidio. Negli anni successivi al 1994 più di 120mila persone sono state arrestate con l’accusa di avervi partecipato. 93 sono state processate ad Arusha, in Tanzania, da un tribunale speciale istituito dalle Nazioni Unite, il Tribunale penale internazionale per il Rwanda, che ne ha condannate 61, al costo esorbitante di due miliardi di dollari. Tutte le altre sono state processate da tribunali rwandesi tra mille difficoltà perché mancavano giudici, avvocati, funzionari. Per anni decine di migliaia di persone sono state rinchiuse in carceri sovraffollate, in condizioni inumane. Molte vi sono morte di stenti e malattie prima di essere processate. Per riuscire a giudicare altre centinaia di migliaia di Hutu che non erano stati arrestati, ma che si riteneva avessero avuto un ruolo nei massacri, nel 2001 sono stati istituiti 12mila tribunali popolari chiamati Gacaca, sul modello dei consigli tradizionali di villaggio. Più rapidi, ma affidati a persone impreparate, spesso sono diventati strumenti di corruzione e di vendette personali. Occorreva anche affrontare il problema delle proprietà Tutsi saccheggiate, danneggiate, distrutte, occupate da famiglie Hutu. Nel 2021 i casi da esaminare erano ancora almeno 30mila.

Ma il genocidio ha avuto ancora altre ricadute oltre i confini del Rwanda, di portata regionale. Temendo la vendetta Tutsi, più di due milioni di Hutu nel luglio del 1994 lasciarono il paese. La maggior parte entrarono nella Repubblica democratica del Congo dove, nei pressi di Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu situato vicino al confine tra i due paesi, l’Onu istituì per loro il più grande complesso di campi profughi del mondo. Ma a rifugiarsi in Congo, mescolati ai civili, furono migliaia di soldati e politici Hutu superstiti. I campi profughi divennero, sotto gli occhi degli operatori umanitari, quartieri generali delle milizie Hutu che per anni hanno continuato a uccidere i Tutsi: in Rwanda, oltrepassando la vicina frontiera, e in Congo, colpendo i congolesi di etnia Tutsi che vivono nell’est del paese. Per difendersi, i Tutsi congolesi avevano creato una formazione paramilitare, il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo. Suo erede oggi è il gruppo armato M23 che imperversa nelle province del Nord e Sud Kivu. Proprio in questi mesi gli M23 stanno avanzando su Goma. A febbraio hanno conquistato Sake, una città a 25 chilometri dal capoluogo. A causa dell’M23 dall’inizio del 2024 oltre 200mila persone sono fuggite e ora sono ospiti di campi profughi Onu. Il Congo accusa il Rwanda di finanziare e sostenere militarmente l’M23 affiancandogli persino delle truppe. Il Rwanda nega e replica accusando il Congo di attentare alla sicurezza nazionale e di servirsi di milizie Hutu, residui dei profughi del 1994. In aiuto al Congo sono inoltre arrivate truppe dal Malawi, dal Tanzania e dal Sudafrica. La regione rischia di nuovo di diventare teatro di un conflitto continentale come durante la seconda guerra del Congo, dal 1998 al 2003.