Russia-Ucraina, Biden è finito in un vicolo cieco
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Il vertice a Mosca tra Xi Jinping e Vladimir Putin ha smentito tutte le aspettative americane ed europee circa l'isolamento del presidente russo. Invece ora sono gli Usa a trovarsi in una posizione scomoda perché non hanno mai preso in considerazione un piano B, e forse bisognerà aspettare l'uscita di scena di Biden per uscire dallo stallo.
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I commentatori occidentali più strettamente allineati con la linea dell'amministrazione Biden sulla guerra russo-ucraina in questi mesi hanno sempre respinto con fastidio i timori di chi additava il rischio che il “muro contro muro” nei confronti di Putin rafforzasse soprattutto la Cina, legando sempre più strettamente Mosca a Pechino e favorendo la saldatura di un blocco asiatico in funzione anti-occidentale.
Le ripetute manifestazioni di vicinanza del regime di Xi Jinping alla Russia – pur a partire da una dichiarata posizione di “imparzialita” - sono state minimizzate regolarmente da quei commentatori come finzioni diplomatiche, dietro le quali si sarebbe nascosta una reale insofferenza dei cinesi verso la politica imperialistica di Putin, e alle quali nei fatti sarebbe seguita una pressione crescente nei confronti di Mosca per porre fine al conflitto, molto preoccupante per Pechino per le sue possibili conseguenze economiche e geopolitiche.
Ebbene, la visita di Xi a Mosca nei giorni scorsi sembrerebbe smentire una volta per tutte tali interpretazioni, rivelandole sostanzialmente come wishful thinking degli Stati Uniti e delle cancellerie Nato. Per tutta la durata del vertice, ogni segnale lanciato al mondo dai due governi coinvolti ha avuto un inequivocabile significato: la solidarietà tra Russia e Cina, l'ulteriore rafforzamento dei loro vincoli reciproci, la speculare loro contrapposizione alla “mentalità da guerra fredda” addebitata all'Occidente, addirittura la loro volontà di costruire un “nuovo ordine mondiale” alternativo. Una direzione di marcia accompagnata significativamente dai dati economici dell'ultimo anno, che indicano l'impennata delle esportazioni di carbone, gas, petrolio russo in Cina e di manufatti cinesi in Russia, così come dal progetto del mega-oleodotto “Power of Siberia 2” condiviso tra i due paesi e la Mongolia.
Certo, non è arrivato lo sperato (da Putin) e temuto (dagli americani) annuncio di forniture militari cinesi a Putin. E Xi si sforza ancora di presentarsi all'opinione internazionale come "mediatore" tra Russia e Ucraina, proponendo il suo piano di pace come punto di partenza per un dialogo. Tuttavia, non c'è dubbio che egli abbia, in questa circostanza, palesato chiaramente al mondo non soltanto di non avere la minima intenzione di abbandonare Putin al suo destino, ma di essere deciso a rafforzare il proprio ruolo di "garante" e "protettore" degli interessi geopolitici di Mosca, fino al punto da considerare ogni danno subìto dal “caro amico” russo (espressione risuonata reciprocamente decine di volte durante i tre giorni) come proprio.
Davanti a questo ormai innegabile dato di fatto, gli analisti “bideniani” stanno già cambiando repentinamente la loro versione dei fatti: dal Leitmotiv “Vedrete, Xi sta per mollare Putin” a quello “Avete visto? Lo dicevamo che dei cinesi non ci si poteva fidare, tiranno non mangia tiranno … “. Ora essi insistono soprattutto, sulla scia della nervosissima reazione del portavoce del Pentagono John Kirby, nel sottolineare come il piano di pace cinese sia totalmente inaffidabile, una mera copertura per dare all'alleato Putin il tempo di consolidare le sue conquiste (Kirby addirittura ha intimato agli ucraini di non prenderlo in considerazione prima ancora che esso sia illustrato nei dettagli, e di non accettare alcuna proposta di cessate il fuoco).
Ma proprio questo nervosismo, e questa accusa, sono la prova per converso del fatto che tutte le precedenti considerazioni compiaciute sul presunto isolamento della Russia erano sbagliate: cosa che avrebbe dovuto essere già evidente da mesi, visto che il tanto atteso tracollo dell'economia russa sotto il peso delle sanzioni internazionali non c'è stato, che a quelle sanzioni non ha aderito più della metà del pianeta e che le perdite di Mosca nei rapporti con l'Occidente sono state compensate in larga parte dall'infittimento degli scambi con Cina, India, paesi islamici e latinoamericani.
In realtà lo show propagandistico mondiale dispiegato dal regime cinese e da quello russo negli ultimi giorni sancisce un dato di fatto che una minoranza di commentatori occidentali per nulla simpatizzanti col Cremlino, ma costruttivamente critici, aveva indicato fin dall'inizio della guerra: andare allo scontro frontale con Mosca, senza nemmeno prevedere una possibilità di mediazione, avrebbe “regalato” la Russia alla Cina, certo in posizione decisamente subordinata, ma complessivamente solida, tale da consentire a Putin una guerra prolungata praticamente a oltranza, e al tempo stesso funzionale a far pendere il baricentro della potenza mondiale ulteriormente verso l'Asia, fornendo peraltro a Pechino pretesto e mezzi per fare la voce più grossa rispetto a Taiwan e all'area indopacifica.
Ora, alla luce degli sviluppi che la visita di Xi a Mosca ha evidenziato, chi si trova in una situazione molto scomoda sono proprio gli Stati Uniti. Sulla scia della politica univocamente anti-russa abbracciata dalle amministrazioni Dem (e anche da quelle repubblicane, con l'eccezione di Trump) Biden ha scelto di suonare un'unica nota sullo spartito, quella dell'”aggressore e aggredito”, puntando tutte le carte sulla sconfitta militare dei russi, o quanto meno su un loro logoramento nel pantano di un “Vietnam” est-europeo, e sull'inglobamento di fatto dell'Ucraina nel sistema di alleanze politico-militari atlantiche, senza prendere in considerazione nessun “piano B”. Ora, dopo un anno di conflitto, perdite umane e distruzioni immani, gli americani sembrano essere rimasti prigionieri di quella linea, privi di alternative, e costretti a ribadire all'infinito, insieme al presidente ucraino Zelensky, il controsenso secondo cui l'unico modo per avviare trattative di pace sarebbe il ritiro dei russi da tutto il territorio dell'Ucraina: il che significherebbe una resa russa senza condizioni, dopo la quale non si comprende su cosa si dovrebbe trattare.
Se la propaganda dell'amministrazione statunitense, della Nato, del G7, dell'Ue per molti mesi è sembrata puntare addirittura su un possibile regime change a Mosca, con disarcionamento di Putin, oggi all'inverso parrebbe che per uscire da una situazione di scacco sempre più problematica per l'Occidente si debba attendere soltanto un cambio della guardia alla Casa Bianca, con una nuova leadership in grado di riconsiderare la questione ucraina nel quadro più ampio di un sistema di sicurezza continentale accettabile, in qualche modo, anche da Mosca.