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San Giovanni della Croce a cura di Ermes Dovico
Ora di dottrina / 188 – Il supplemento

Perché guardare ad est

Nel suo Rationale Divinorum Officiorum, Durando di Mende ricorda l’importanza della postura corporea nel culto. Noi guardiamo ad oriente perché tutto il nostro essere è rivolto a Cristo, «splendore della luce eterna», e come richiamo a volgere l’animo alla patria eterna.

Catechismo 14_12_2025

Perché i cristiani hanno così tanto insistito sulla preghiera rivolta ad oriente? Perché hanno fatto tutto il possibile per costruire chiese e altari orientati? Perché tanta attenzione e tanta insistenza? Prima di indagare sulla ricchezza di significato dell’orientamento della preghiera, che abbiamo in parte già presentato (vedi qui), è necessario richiamare un principio fondamentale che, nello spiritualismo che ha invaso il mondo cattolico, spiritualismo che si traduce in una esclusività dell’interiorità a detrimento dell’esteriorità, abbiamo dimenticato. «Non è senza motivo né per caso che ci prostriamo in adorazione verso oriente, ma è perché siamo costituiti dalla natura visibile e invisibile, ossia intelligibile e sensibile, sicché compiamo una duplice adorazione rivolta all’Artefice» (Esposizione della Fede, 85).

La nostra natura umana ha questa duplice dimensione ed è nella sua integrità che ella è chiamata ad adorare Dio. È piuttosto evidente all’uomo contemporaneo che una scissione che sacrifichi l’aspetto invisibile e intelligibile del culto possa condurre ad un culto puramente formale, sterile e vuoto;  sembra invece meno sentito e compreso il problema opposto, ossia che la liquidazione della dimensione visibile e sensibile nel culto crei non minori problemi. Da qualsiasi parte la si prenda, una “schizofrenia” nel culto comporta sempre una malattia dell’uomo religioso. Di fronte alla sufficienza con cui noi oggi liquideremmo il problema dell’orientamento della preghiera – del tipo: l’importante è pregare –, i cristiani dei secoli che ci hanno preceduto, fino alle porte della modernità, sapevano molto bene che questo orientamento fisico esprime e condiziona l’orientamento interiore della vita.

Nel suo Rationale Divinorum Officiorum, cui abbia già fatto riferimento nell’articolo della scorsa domenica, Durando di Mende riassume la stratificazione di significati e misteri che la preghiera orientata confessa e richiama nella potenza e nella semplicità di una postura corporea. Noi guardiamo ad oriente, primariamente perché tutto il nostro essere è rivolto a Cristo, «splendore della luce eterna», che ci ha visitato come sole che sorge dall’alto per rischiarare noi, immersi nelle tenebre e nell’ombra della morte (cf. Lc 1, 78). Volgendoci con i nostri corpi a questa luce terrena che è fin dalla creazione segno della luce di Cristo redentore, veniamo altresì esortati, spiega Durando, «a volgere il nostro animo alle realtà superiori». Sotto quest’ultimo aspetto, guardare verso oriente ha lo stesso significato del volgere nella preghiera lo sguardo verso l’alto.

La terza motivazione è curiosa: «perché coloro che vogliono lodare Dio, non devono dargli le spalle». Chissà cosa direbbe Durando delle nostre riunioni liturgiche. In realtà, essa è il corollario “negativo” delle prime due ed enfatizza ulteriormente l’importanza del gesto corporeo. Porre attenzione ad orientare il proprio corpo in una certa direzione, gesto che ricorda all’anima che anch’essa è chiamata ad orientarsi, a sintonizzarsi su Dio, significa nel contempo spronarla a non dimenticarsi di Dio, volgendogli le spalle. È interessante notare come nel rito del Battesimo veniva chiesto al catecumeno di confessare la fede voltandosi ad est, volgendo nel contempo le spalle al regno dell’oscurità, simboleggiato dall’occidente, che egli era determinato a rinnegare per sempre. Si tratta di un rito che è come il negativo fotografico di quanto espresso da Durando e che marca una volta di più che la vita cristiana è sostanzialmente un volgersi alla luce di Cristo: «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (Rm 13, 12).

Durando, che in generale si ispira a san Giovanni Damasceno su questo tema, vi si riallaccia esplicitamente allorché indica l’orientamento della preghiera come la ricerca della nostra vera patria. «La Scrittura soggiunge: “Poi il Signore piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato” (cf. Gen 2, 8) e che, avendo violato il comando divino, bandì dalle delizie del giardino, evidentemente a Occidente. Ricercando la patria originaria e tenendo fisso lo sguardo ad essa adoriamo Dio» (Esposizione della Fede, 85). L’orientamento è decisivo per richiamare costantemente all’uomo che egli è in cerca di un’altra patria, che il suo cuore non deve accomodarsi tra le false delizie di questo mondo: altra è la sua condizione originaria e altro il destino eterno a cui è chiamato. Ogni volta che guardiamo ad est confessiamo l’infinita bontà di Dio che ci aveva creato nell’integrità e nella grazia e versiamo lacrime di nostalgia per la condizione perduta e di desiderio per la vera patria che ci è promessa. Guardare ad oriente significa dunque sconfessare ogni tentativo di un cristianesimo mondano, di un cristianesimo che ha la presunzione di edificare la città dell’uomo, dimentico della Città di Dio, dei «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt 3, 13).

Guardando ad est incrociamo anche lo sguardo di Cristo che dalla croce «ha guardato a Occidente», verso quel regno delle tenebre, da cui con la Croce ci stava per strappare. L’incrocio con questo sguardo stempera la durezza del cuore e fa versare nuove lacrime di gratitudine e pentimento, mentre con timore e speranza attendiamo il suo ritorno come giudice. Infatti, «Cristo, sollevandosi, è asceso verso Oriente e in questo modo gli apostoli lo adorano e così di nuovo verrà nel modo in cui è stato visto partire verso il cielo […]. Pertanto, pronti ad accoglierlo da Oriente, rivolti a questo lo adoriamo» (Ibi). È la confessione che la storia non va verso l’assurdo, non va verso il trionfo del male, nonostante le apparenze contrarie; neppure è un cerchio chiuso in se stesso e sempre uguale a se stesso. Essa va incontro al giudizio infallibile e inappellabile di Cristo, che svelerà i pensieri di ogni cuore.

L’orientamento della preghiera sintetizza così tutta la rivelazione cristiana sull’origine dell’uomo e la sua redenzione, sul suo destino eterno, sulla direzione della storia, unendola alla realtà simbolica della creazione. Pochi altri gesti sanno custodire così tanti significati e sprigionarne la potenza. Ogni volta che il popolo cristiano (e ciascuno) si ricorda di volgersi verso oriente per la preghiera, confessa e rinvigorisce la grande speranza della Chiesa, che attende, rinnovata dalle lacrime, l’arrivo del suo Sposo, che «esce dalla sua camera nuziale» (Sal 19, 5), come il sole che fa capolino sull’orizzonte, a est. Incerta è l’ora, ma certa è la venuta, il momento in cui, improvvisamente, udremo la voce che ci scuoterà dal sonno: «Ecco lo sposo, andategli incontro!» (Mt 25, 6). E beato chi con prontezza, si volgerà verso oriente, per accogliere il Cristo che viene.



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