I frutti dello Spirito Santo – Il testo del video
San Paolo enumera dodici frutti dello Spirito Santo. Qual è la loro relazione e quale la distinzione con i doni e le beatitudini? I frutti indicano la maturazione dell’uomo in tre ordini: in sé stesso, verso il prossimo, verso le cose al di sotto di lui.
Oggi concludiamo la nostra sezione dedicata allo Spirito Santo commentando la quæstio 70 della I-II della Somma Teologica, che è dedicata ai frutti dello Spirito Santo. Quando parliamo dei frutti dello Spirito Santo ci riferiamo in modo particolare al passo della Lettera ai Galati (5, 22), dove san Paolo enumera dodici frutti dello Spirito Santo [dodici sono i frutti enumerati nella Vulgata, mentre la traduzione italiana attinge dal testo greco, dove ne sono riportati nove]. San Tommaso, dopo aver parlato a lungo delle virtù, ha introdotto il discorso sui doni dello Spirito Santo (vedi qui e qui), poi sulle beatitudini; e adesso vediamo i frutti. È evidente che nella sua esposizione Tommaso cerca di mostrare la relazione e la distinzione tra i frutti, i doni e le beatitudini.
Nell’art. 1 della quæstio 70, san Tommaso si chiede se i frutti dello Spirito Santo di cui ci parla san Paolo nella Lettera ai Galati siano atti. Capiremo il perché dell’importanza di questa volontà di distinguere. San Tommaso prima di tutto ci dice che cos’è un frutto. Un frutto spirituale è comprensibile per analogia a un frutto materiale, al frutto di un albero. Lui spiega: «Si dice frutto ciò che la pianta produce quando è giunta alla sua perfezione e che ha in sé stesso una certa dolcezza» (I-II, q. 70, a. 1). Il frutto è il punto d’arrivo del lungo percorso della pianta, è l’espressione dell’attività della pianta nel suo giungere a perfezione. La pianta, prima di tutto, è un seme che germoglia, cresce in un arbusto, cresce ulteriormente, getta delle foglie, fa dei fiori e quindi nella sua maturazione giunge al frutto. E il frutto ha la caratteristica di una certa dolcezza.
Ora, se noi riferiamo questo alla vita dell’uomo e in particolare alla vita dello spirito, come lo possiamo intendere? Sicuramente noi possiamo considerare frutto, in analogia all’immagine dell’albero, ciò che l’uomo produce come espressione in qualche modo di una perfezione raggiunta. E infatti san Tommaso dice: «Se si considera frutto dell’uomo ciò che egli produce, allora gli stessi atti umani si dicono frutti: infatti l’operazione è l’atto secondo del soggetto operante ed è piacevole se ad esso proporzionata» (ibidem). In pratica, possiamo dire che quando l’uomo vive secondo la sua natura produce degli atti che sono dei frutti in quanto sono l’espressione in qualche modo di una maturità, di una perfezione raggiunta. Ecco che, se consideriamo il versante delle virtù, l’atto virtuoso è un frutto.
Se però noi guardiamo la perfezione dell’uomo non solo secondo la sua natura, ma secondo quella dimensione superiore che abbiamo visto parlando dei doni, dunque secondo la sua prontezza a rispondere alle mozioni dello Spirito Santo, allora gli atti che nascono su entrambi questi versanti hanno il valore, la connotazione di un frutto, precisamente perché sono l’espressione di un atto di perfezione dell’umanità, di un atto maturo dell’umanità. Pensiamo al lato naturale: noi non possiamo dire che il vagire del bambino sia un frutto, perché evidentemente non risponde alla connotazione di una perfezione raggiunta; quando noi pensiamo a un discorso articolato, la capacità di produrre parole, di articolarle, noi lo vediamo già come un frutto, una perfezione raggiunta proporzionata a quella che è effettivamente la capacità dell’uomo di parlare.
Prosegue Tommaso: «Se dunque un’operazione umana deriva da un uomo secondo la capacità della sua ragione [cioè, quando l’uomo agisce secondo ragione], si dice che è un frutto della ragione [e dunque vedete che gli atti virtuosi sono frutti]. Se invece deriva dall’uomo per una virtù superiore, che è quella dello Spirito Santo, allora si dice che l’operazione dell’uomo è un frutto dello Spirito Santo come conviene da un seme divino» (ibidem). Entrambi sono frutti: gli atti che provengono dal vivere secondo ragione e gli atti che provengono dall’agire secondo una virtù superiore, secondo i doni dello Spirito Santo. Ma è evidente che, sebbene entrambi siano frutti, c’è frutto e frutto. E in questo caso il frutto della vita secondo lo Spirito Santo nasce come da un seme divino che è posto nell’uomo, che è la presenza dello Spirito Santo con i suoi sette doni. E dunque a buon ragione san Tommaso cita la Prima Lettera di san Giovanni (3, 9): «Chiunque è nato da Dio non commette peccato perché un germe divino dimora in lui». Cioè, vive secondo questo germe divino e i suoi atti sono un frutto corrispondente a questo germe divino, che è cresciuto, maturato fino a fruttificare appunto negli atti.
Nella risposta alla prima obiezione, san Tommaso precisa: «Le nostre opere, in quanto sono effetti dello Spirito Santo operante in noi, hanno natura di frutto; in quanto però sono ordinate al fine della vita eterna, hanno piuttosto natura di fiori» (I-II, q. 70, a. 1, ad 1). Sono frutti o sono fiori? Dipende. Cioè, in rapporto a questo germe divino che è stato posto in noi, gli atti che scaturiscono dal vivere secondo i doni dello Spirito Santo sono frutto chiaramente; ma se io li rapporto alla perfezione ultima a cui tutti questi atti e tutti questi frutti tendono, allora, essi sono fiori, che sbocceranno in un frutto eterno. Potremmo dire che sono frutti ordinati al frutto per eccellenza, che ha una perfezione per eccellenza: il fruttificare nella vita eterna ha una perfezione che non hanno i frutti buoni dei nostri atti che scaturiscono dalla vita secondo lo Spirito Santo; quindi, sono sì frutti, ma non sono frutti ultimi, non sono frutti che hanno la perfezione e la maturazione ultima della vita eterna.
Ancora, è interessante quanto Tommaso scrive nella risposta alla seconda obiezione: «L’uomo deve fruire solo di Dio per sé stesso, come del fine ultimo» (I-II, q. 70, a. 1, ad 2). La beatitudine ultima, somma, perfetta, eterna, stabile, pienamente beatificante e pacificante è il fruire di Dio per sé stesso. Aggiunge Tommaso: «… e rallegrarsi degli atti virtuosi non come se fossero un fine, ma per l’onestà che essi contengono, piacevole per le persone virtuose. Perciò sant’Ambrogio afferma che le opere virtuose vengono dette frutti “in quanto saziano chi le possiede con una santa e sincera gioia”» (ibidem). Ricordate l’altro aspetto del frutto: abbiamo visto che uno è l’atto perfetto, cioè della maturazione piena dell’albero, quindi dell’uomo; ma c’è anche l’aspetto di qualcosa di dolce, che ha in sé una certa dolcezza. Ora san Tommaso – parlando di tutti gli atti virtuosi, gli atti che nascono dal vivere secondo lo Spirito Santo, secondo i doni dello Spirito Santo – ci dice che non ce ne dobbiamo rallegrare come se fossero un fine, perché il fine è la fruizione di Dio in sé stesso, la visione di Dio. Però, ragiona Tommaso, qual è la dolcezza che cogliamo di questi frutti, di questi atti che scaturiscono da una maturazione dell’uomo nelle virtù e nella vita secondo i doni dello Spirito Santo? San Tommaso ci dice che questa dolcezza è «l’onestà che essi contengono». L’onestà non ha qui una connotazione moralistica come intendiamo oggi, di sincerità. L’honestas, concetto che san Tommaso eredita da Cicerone, ha a che fare con una integrità, una bellezza, qualcosa che manifesta una rettitudine dell’atto. Questa, ci dice Tommaso, in sé stessa è piacevole per le persone virtuose; l’uomo virtuoso gode della virtù, l’uomo che vive secondo lo Spirito gode degli atti che scaturiscono dalla vita secondo lo Spirito.
Questo è un discorso interessante, importante, perché noi siamo sempre abituati a pensare: “che cosa ne ricavo?”. Che poi il ricavo c’è, la vita eterna non è poco... è un dono che ci è dato anche grazie a un merito. Qui il concetto è che più l’uomo è virtuoso più sa assaporare l’onestà, la virtù, l’integrità dell’atto buono, la dolcezza che scaturisce dalla virtù e dalla vita secondo lo Spirito Santo. Vivere secondo virtù e vivere secondo i doni dello Spirito Santo, vivere docilmente alle ispirazioni dello Spirito Santo, è già in qualche modo un appagamento, c’è già il gustare la dolcezza del frutto. Non è il fine ultimo, eppure c’è un bene: se non lo percepiamo è perché evidentemente non siamo familiari alla virtù e allo Spirito Santo e quindi cerchiamo sempre qualche cosa di diverso dall’appagamento.
Nell’art. 2 san Tommaso affronta la differenza tra i frutti e le beatitudini. Anche le beatitudini sono attribuite ai doni, anche esse sono atti, quindi che differenza c’è? «Per la beatitudine si richiede più che per il frutto. Per il frutto infatti basta che una cosa si presenti come ultima e piacevole, mentre per la beatitudine si richiede inoltre che sia qualcosa di perfetto e di eccellente. E così tutte le beatitudini possono dirsi frutti, ma non viceversa. Infatti qualunque azione virtuosa compiuta con gioia è un frutto. Invece si dicono beatitudini le sole azioni perfette, le quali inoltre, a motivo della loro perfezione, sono attribuite più ai doni che alle virtù» (I-II, q. 70, a. 2). Allora, il concetto base è questo: tutte le beatitudini sono frutti, ma non tutti i frutti sono beatitudini. Perché? In fondo lo abbiamo già detto, perché anche gli atti virtuosi sono frutti, ma sappiamo che l’atto virtuoso ci fa vivere secondo la ragione, cioè secondo il bene dell’uomo. Invece i doni ci collocano su un piano superiore, cioè ci fanno vivere secondo lo Spirito Santo, secondo i dettami non della ragione bensì dello Spirito Santo, non perché tra questi due ci sia conflitto ma perché c’è una superiorità dei secondi sui primi. E dunque possiamo dire che anche le virtù danno i loro frutti, non solo le beatitudini; se è vero che le beatitudini sono frutti, non tutti i frutti sono beatitudini. Qual è la particolarità delle beatitudini? Tommaso ci dice che le beatitudini sono le sole perfette anche rispetto alle virtù, non perché le virtù non abbiano anche una propria perfezione, ma perché in fondo non ci permettono ancora di vivere secondo quella legge superiore a cui Dio chiama l’uomo. E quindi potremmo dire che solo le beatitudini sono frutti perfetti. E in questo senso, precisa la Summa, «sono attribuite più ai doni che alle virtù». Questo è un po’ il quadro che ci permette di capire come si collocano i frutti rispetto alle beatitudini, alle virtù e ai doni.
Adesso andiamo a vedere precisamente quali sono questi frutti, enumerati da san Paolo nella Lettera ai Galati. Torniamo al concetto base e riprendiamo il nostro parallelo, il nostro paragone tra l’uomo e l’albero. Che cos’è un frutto? È il finecorsa, non nel senso che è finito il binario, ma come perfezione, quindi come maturazione del percorso che parte dal seme, dalla radice: è un progresso che raggiunge il suo apice. Ora, questo tipo di progresso nell’uomo ordina, crea un’integrità in tre direzioni: nei confronti dell’anima, cioè dell’uomo verso sé stesso; riguardo alle cose che sono attorno all’uomo, il prossimo, quindi l’ordine nei rapporti con gli altri; e infine riguardo alle cose che sono al di sotto dell’uomo.
I frutti indicano dunque la perfezione, la maturazione di questo particolare albero che è l’uomo – l’uomo guidato dalle mozioni dello Spirito Santo, quindi verso una dimensione più alta – e che ha queste tre dimensioni, questi tre ordini di cui abbiamo appena detto. San Tommaso ci dice di partire dall’anima in sé stessa, dall’uomo in sé stesso: «L’anima è ordinata in sé medesima quando nel bene e nel male ha una retta disposizione» (I-II, q. 70, a. 3). Questa retta disposizione è proprio il frutto, l’atto fruttuoso della vita secondo i doni dello Spirito Santo. «E la prima sua disposizione al bene è dovuta all’amore, che è il primo degli affetti e la radice di tutti gli altri. Perciò, tra i frutti dello Spirito Santo al primo posto abbiamo la carità» (ibidem). Perché? Perché l’amore è una tendenza al bene, un ordine al bene. E dunque il primo frutto che abbiamo è proprio questa disposizione al bene, che è la definizione della carità, dell’amore. In questo caso, il Bene sommo, che è Dio; e in Dio ogni bene.
«Ma all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell’unione con l’amato» (ibidem). Quindi, il primo frutto, che è la carità, è seguito dal secondo frutto che le è intimamente legato e che è la gioia. Che cos’è la gioia? La gioia è il godimento del possesso di ciò che si ama. A livello naturale abbiamo una gioia parziale quando noi possiamo essere uniti a ciò che amiamo, anche a un livello più basso, dei beni materiali. La gioia nasce proprio da questa unione.
Terzo passaggio: «La perfezione della gioia è la pace», perché «chi ha il cuore perfettamente appagato [grazie all’amore, alla gioia che mi dà questo appagamento] in una cosa, non può essere molestato dalle altre» (ibidem). Se fosse molestato dalle altre cose, non ci sarebbe l’appagamento. Dunque, la pace è proprio questa stabilità nella gioia che resiste ad ogni altro tipo di molestia ed è il terzo frutto dello Spirito Santo. L’amore, la gioia e la pace sono i primi tre frutti dello Spirito Santo rispetto al bene, e abbiamo visto come sono legati tra loro.
Rispetto invece al male, san Tommaso pone due frutti: la pazienza e la longanimità. Perché? La pazienza perché è «l’assenza di turbamento nell’imminenza di cose dolorose». Di quale frutto gode il paziente? Gode di non essere turbato, permanendo in qualche modo in quella pace, anche al sopraggiungere di cose dolorose. Dall’altra parte, il longanime è colui che permane in qualche modo nella pace, non travolto dal «turbamento nella dilazione delle cose piacevoli», quando ciò che è piacevole, ciò che è sperato, ciò che è atteso, ancora non giunge. Quindi, sia il sopraggiungere di cose dolorose sia la dilazione delle cose piacevoli, delle cose sperate, non è causa di turbamento per i pazienti e i longanimi. E questi dunque sono altri due frutti dello Spirito Santo: la pazienza e la longanimità.
Quindi i primi cinque frutti – carità (o amore), gioia, pace, pazienza e longanimità – hanno a che fare con l’ordine dell’uomo, con l’anima ordinata in sé stessa.
Poi abbiamo i frutti che nascono dall’ordine rispetto al prossimo, prima di tutto la bontà. Che cos’è la bontà? È la volontà di fare il bene. Interessante. Il frutto dell’anima verso gli altri si ha quando l’anima è stabile, ferma nella volontà di fare il bene, non è fluttuante; la sua volontà di fare il bene non dipende dalle circostanze esterne o dai condizionamenti interni, ma è una volontà stabile, perché è un frutto maturo dell’opera delle virtù e soprattutto dei doni dello Spirito Santo.
Il secondo frutto, sempre riguardo all’ordine rispetto al prossimo, è la benignità. Che differenza c’è tra la bontà e la benignità? La bontà è la volontà di fare il bene, mentre la benignità è l’esercizio effettivo nel fare il bene: evidentemente sono due aspetti collegati, il primo ha a che fare con la disposizione interna, il secondo ha a che fare con una operatività reale.
Poi abbiamo altri due frutti, sempre nella categoria dell’ordine verso il prossimo, che sono la mansuetudine e la fede intesa come fedeltà. Che cos’è la mansuetudine? È «l’equanime sopportazione del male ricevuto», come la definisce san Tommaso. Quando in questo percorso dal seme al frutto, il frutto raggiunge la sua maturità, il frutto che si coglie è anche la mansuetudine, cioè questo rimanere sempre uguali a sé stessi di fronte al male ricevuto dal prossimo. Quindi, i due frutti della bontà e della benignità hanno a che fare con l’elargizione del bene nei confronti del prossimo, mentre qui abbiamo il male che possiamo ricevere: chi vive secondo lo Spirito Santo reagisce a questo male con equanimità. Quindi sopporta con un animo sereno, tranquillo; il che non vuol dire che non ci sia la correzione fraterna, ma non c’è un turbamento dettato dalla tristezza o dalla rabbia o da altre passioni.
Poi abbiamo la fedeltà. Perché? Perché la fedeltà ci porta a non rispondere al male ricevuto «con la frode o con l’inganno», ci dice Tommaso, cioè a non ingannare il nostro prossimo. In questo caso si tratta non solo di non nuocere al nostro prossimo con aggressività, ira, ma anche di non mancare di fedeltà al prossimo, anche quando ci offende. Il che non vuol dire “prenderle su tutta la linea”, vuol dire non agire con inganno, non voler frodare il nostro prossimo. Ci troviamo di fronte veramente a una grandezza d’animo, a una perfezione che può nascere solo da un’infusione dall’alto e da una presenza dello Spirito Santo dentro di noi.
Infine, questo ordine è in relazione alle cose che sono al di sotto dell’uomo. E qui abbiamo prevalentemente tre frutti: la modestia, la continenza e la castità. La modestia è quella che agisce nella regolazione delle parole, dei gesti, perché siano modesti – termine che viene da “modus” – quindi perché siano regolati, non siano eccessivi, non siano dettati da concupiscenza.
Relativamente in modo specifico alla concupiscenza carnale, abbiamo i frutti della continenza e della castità. La castità è proprio l’essere trattenuto dal piacere illecito; la continenza è il trattenersi anche dai piaceri leciti, in modo temporaneo o in modo definitivo a seconda degli stati di vita. Dunque, questo è il quadro dei dodici frutti dello Spirito Santo che la Lettera ai Galati ci presenta.
Nell’ultimo articolo troviamo un altro principio importante che è fortemente presente in san Paolo, allorché nella stessa Lettera ai Galati, poco prima dell’elenco dei frutti, ci dice che «la carne ha desideri contrari allo Spirito, e lo Spirito ha desideri contrari alla carne» (Gal 5, 17). E Tommaso commenta così: «Nella loro natura i frutti sono contrari alle opere della carne. Infatti lo Spirito Santo muove l’anima umana verso ciò che è conforme alla ragione o piuttosto verso ciò che è al di sopra di essa» Vedete che anche Tommaso a volte dice “secondo ragione”, ma poi corregge e dice “al di sopra di essa”, perché la vita secondo lo Spirito Santo non è contraria alla ragione, ma è un ulteriore perfezionamento della vita secondo ragione che viene sopraelevata a un livello irraggiungibile dalla sola ragione, ma non per questo contrario alla ragione. «Invece gli appetiti della carne, cioè l’appetito sensitivo, trascinano verso i beni sensibili che sono al di sotto dell’uomo» (I-II, q. 70, a. 4). San Tommaso quindi ci dice che succede un po’ come nel mondo fisico: la vita secondo lo Spirito Santo, seguendo le sue ispirazioni, ci porta verso l’alto; invece, quando vogliamo seguire l’appetito sensitivo, questo ci porta verso il basso. Da questo punto di vista, lo Spirito è contrario alla carne: attenzione, non è contrario al corpo, non è contrario alle facoltà che fanno parte della natura umana. Quando si parla di “carne” si tratta di questa sorta di “forza di gravità”, conseguente al peccato originale, che ci porta verso il basso, cioè ci porta a non vivere più né secondo lo Spirito né secondo la ragione. E quindi tra questi due frutti c’è un’opposizione radicale: i frutti dello Spirito non sono i frutti della carne, e viceversa. Anche se il gioco del Tentatore è proprio quello di spacciarci i frutti della carne come se fossero frutti buoni, deliziosi. Qui si capisce anche il senso del riferimento al frutto nel racconto del peccato originale: se noi pensiamo a quanto abbiamo detto, cioè che i frutti dello Spirito Santo sono come la perfezione della maturazione dell’uomo, non solo dell’uomo naturale ma anche spirituale, dobbiamo capire che il gioco del Tentatore è quello di contraffare il frutto e darcene uno avvelenato, presentandolo come se fosse un frutto buono. San Tommaso, seguendo letteralmente l’impostazione di san Paolo, ci dice che tra gli uni e gli altri non c’è possibilità di conciliazione, perché seguono due direzioni diametralmente opposte.
Dalla prossima Ora di dottrina inizieremo un percorso per conoscere meglio, per quanto possibile alle nostre limitate forze, il mistero di Maria. Nel mistero di Maria troveremo una sorta di sintesi di tutti i misteri della fede; veramente ci metteremo in una prospettiva che ci permetterà di vedere in un’ottica differente i diversi misteri della fede cristiana. E poi ci introdurrà anche alla grande sezione che dedicheremo al mistero della Chiesa.
I frutti dello Spirito Santo
San Paolo enumera dodici frutti dello Spirito Santo. Qual è la loro relazione e quale la distinzione con i doni e le beatitudini? I frutti indicano la maturazione dell’uomo in tre ordini: in sé stesso, verso il prossimo, verso le cose al di sotto di lui.
Perché guardare ad est
Nel suo Rationale Divinorum Officiorum, Durando di Mende ricorda l’importanza della postura corporea nel culto. Noi guardiamo ad oriente perché tutto il nostro essere è rivolto a Cristo, «splendore della luce eterna», e come richiamo a volgere l’animo alla patria eterna.
Le beatitudini – Il testo del video
Esse sono gli atti conseguenti a una vita secondo le virtù e i doni dello Spirito Santo. I premi delle beatitudini: frutti incipienti già nella vita terrena, maturi in quella eterna. Buoni e malvagi: il realismo di san Tommaso. L’ottava beatitudine: conseguenza delle prime sette.
I doni dello Spirito Santo (II parte) – Il testo del video
San Tommaso ci offre l’architettura dei sette doni dello Spirito Santo, spiegandoci quali di essi agiscono nella ragione dell’uomo e quali nella volontà. Il presupposto dei sette doni e la loro connessione: la carità. Il rapporto tra virtù e doni.
I doni dello Spirito Santo – Il testo del video
Nella Summa san Tommaso spiega che «i doni dello Spirito Santo sono abiti che servono a predisporre l’uomo a obbedire prontamente allo Spirito Santo». La differenza con le virtù. Noi e l’iniziativa divina: l’immagine della barca a vela.


