Roma città chiusa. I mali dei monumenti nazionalizzati
Un'assemblea non preannunciata del personale di custodia, porta alla chiusura del Colosseo e di altri importanti siti di Roma, con gran pena per i turisti. Il problema vero è la gestione statale dei beni culturali, un'idea di derivazione napoleonica che impedisce di far rendere le vere ricchezze del Bel Paese.
Ha fatto comprensibilmente notizia sia in Italia che altrove l’inattesa chiusura ieri mattina a Roma del Colosseo e di altri importanti musei della città per assemblea del personale di custodia. La chiusura non era stata preannunciata e il disservizio è stato aggravato dal fatto che nel cartello che ne dava notizia, la versione in lingua inglese conteneva un errore: vi si leggeva infatti che il monumento sarebbe rimasto chiuso al pubblico non fino a mezzogiorno e mezza, bensì fino a mezzanotte e mezza.
L’episodio è increscioso ma sarebbe un errore addossarne la responsabilità soltanto a chi ieri ha preso tale decisione. Fermo restando che con un po’ più di buon senso i promotori di quell’assemblea avrebbero potuto causare meno danni, l’episodio rimanda a un problema ben più ampio, quello della gestione dei monumenti italiani di proprietà o comunque sotto controllo statale, ovvero della massima parte di quelli che non fanno parte del patrimonio monumentale della Chiesa.
Non c’è altro settore dell’amministrazione statale italiana dove come in quello dei beni monumentali il centralismo e lo statalismo imperino in modo altrettanto incondizionato. Il fatto che il grosso del suo sviluppo sia iniziato sotto il fascismo ha certamente la sua parte. Le radici di tale statalismo e centralismo vanno però cercate molto più indietro, in epoca napoleonica quando in Francia, per salvare il salvabile dopo le enormi distruzioni di beni monumentali che avevano avuto luogo durante e dopo la Rivoluzione, venne sviluppata la “filosofia” il cui tipico prodotto è il concetto di “monumento nazionale”. L’idea cioè che un certo edificio è un bene della Nazione e per questo merita tutela a prescindere da chi l’aveva costruito, per quali motivi e con quale significato. In questo modo si riuscì a chiudere un’epoca nella quale celebri castelli e grandiose abbazie, come tra le altre quella di Cluny, venivano venduti all’asta come cave di pietra. Al di là della sua utilità immediata la filosofia del “monumento nazionale” porta con sé un sostanziale esproprio della proprietà culturale prima che fisica dei monumenti. Questi in realtà non sono stati né voluti, né costruiti né soprattutto conservati attraverso i secoli della Nazione (di cui tra l’altro fino al secolo XVIII non si aveva nemmeno l’idea). Sono nati e sono giunti fino a noi in primo luogo grazie a decisioni, energie, iniziative di tutela e di difesa nonché risorse degli abitanti del territorio ove sorgono.
Fedele alla sua originaria matrice napoleonica, sia in Italia che in molti altri Paesi, l’amministrazione statale dei beni monumentali ha un’ispirazione generale opposta. La gente e le istituzioni locali sono viste come il primo nemico, se non attuale quantomeno potenziale, dei monumenti. Il territorio è un nodo di incompetenze e interessi sordidi o comunque di corto respiro da cui il monumento non si salverebbe se non ci fosse lo Stato. L’ideale è dunque che lo Stato se ne occupi in via esclusiva e in modo centralizzato quanto più possibile. Negli ultimi decenni, schiacciato dal peso della sua crisi finanziaria, lo Stato si è sì rassegnato a cercare anche al suo esterno risorse finanziarie per le opere di manutenzione e di valorizzazione dei monumenti, ma lo fa di malavoglia e cercando in ogni modo di raccogliere fondi senza nulla concedere in quanto ai modi della loro gestione.
Ci sono monumenti in Italia, come appunto il Colosseo di Roma, con una capacità di attrazione planetaria. Monumenti che se avessero personalità giuridica e autonomia di gestione diventerebbero aziende di un valore tale da poter venire quotate in borsa. Invece restano strutture sonnacchiose affidate a personale demotivato, come quello che ieri si è permesso di andare a fare la sua assemblea in ore di punta chiudendosi alle spalle i cancelli del celebre monumento alla faccia dei turisti venuti da ogni parte del mondo con la speranza di visitarlo. Guai però se qualcuno si azzarda a proporre una vera riforma della gestione dei monumenti statali, all’insegna di modelli di gestione autonoma e responsabile. Il minimo che gli capiti è quello di venire accusato di voler gettare beni sacrosanti nella bocca della più sordida speculazione. Così nel nostro Paese si continua a sprecare un patrimonio che potenzialmente costituisce un pilastro principale della nostra economia, sia direttamente e sia indirettamente, per le sue ricadute sul turismo e su molti altri settori.