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Rodotà, pericolo scampato

Il profilo di Stefano Rodotà, candidato Presidente della Repubblica da parte del M5S. I cattolici italiani dovrebbero essere grati alla Provvidenza per lo scampato pericolo della sua elezione. Compresi i nuovi "cattolici grillini".- Napolitano "striglia" i partiti

Politica 23_04_2013
Rodotà

Nonostante sia assurto a icona della società civile ed emblema dell’anti-casta, il Prof. Stefano Rodotà non può davvero iscriversi, politicamente parlando, alla schiera del cosiddetto “nuovo che avanza”.

Classe 1933, avverte una passione politica sin dagli anni dell’adolescenza, che si trasforma in impegno militante durante il periodo dell’università, fino alla sua formale adesione al Partito Radicale di Mario Pannunzio. Ed è proprio in quel partito che Rodotà segue le campagne elettorali, i comizi, gli incontri, e comincia a “fare il caseggiato”, cioè girare porta a porta per parlare di politica.

Dagli anni ’50 in poi seguirà un cursus honorum parlamentare di tutto rispetto. La matrice culturale del professore calabrese si radica, quindi, saldamente nel filone radicale, con l’aggravante di un’inossidabile preparazione giuridica e di un’indiscussa intelligenza luciferina. Né hai mai smesso di cavalcare le battaglie storiche di quel filone culturale. Tra i numerosissimi interventi pubblici se ne possono citare alcuni, cominciando dal tema dell’eutanasia.
In una sua intervista resa alla giornalista Ida Dominijanni e pubblicata su “Il Manifesto” del 27 settembre 2006, Stefano Rodotà – che, tra l’altro è anche socio onorario dell’associazione eutanasica “LiberaUscita” – citava «i sondaggi di Mannheimer pubblicati sul Corriere della Sera, che danno quasi un cattolico su due favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia». E aggiungeva: «Più di dieci anni fa, in una trasmissione televisiva sull’eutanasia cui partecipavo io stesso, l’opinione del pubblico, all’inizio prevalentemente contraria, alla fine diventò prevalentemente favorevole, grazie anche a un ottimo intervento di padre Turoldo: l’importante è impostare correttamente la questione».

In un articolo intitolato “La battaglia su un simbolo”, pubblicato il 4 novembre 2009, Rodotà plaudiva pubblicamente alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo pronunciatasi contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. In quell’articolo esordiva rammaricandosi del fatto che «ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente», non suscitasse «le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate», ma inducesse «a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni», mentre si sarebbe dovuto ricordare che «le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale».

Secondo Rodotà, infatti, la sentenza della Corte Europea fece bene a sottolineare «come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione», e che, pertanto, è assolutamente legittimo «evitare che la presenza di un “segno esteriore forte” della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso», potendo questo apparire «perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna».
“Guai”, continuava Rodotà in quell’articolo «a considerare quella sentenza “come un documento che apre un insanabile conflitto”, che “nega l´identità europea”, che è “sintomo di una dittatura del relativismo”, o addirittura “un colpo mortale all´Europa dei valori e dei diritti”, o a parlare di “corte europea ideologizzata”», perché questo è un linguaggio non accettabile «soprattutto da chi ha responsabilità di governo».

L’articolo proseguiva con la considerazione che «l’ossessione identitaria (…) che percorre pericolosamente i territori dell’Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell'Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell'uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza della Corte Europea sul crocifisso, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a “radici cristiane”, che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l'Europa, anche intorno all'eguale diritto di tutti e di ciascuno».

«Dobbiamo forse rimpiangere quella lungimiranza?», si chiedeva il Professore, concludendo, infine, con l’esortazione al fatto che «l'Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta». La posizione del Rodotà anticlericale è ben espressa nel suo saggio “Perché laico” (2009), un vero e proprio manifesto laicista.
In quell’opera il Professore si chiede fino a che punto sia possibile convivere e confrontarsi con colei che ritiene di essere detentrice della Verità con la “V” maiuscola, rispondendo fermamente che «il dialogo non è possibile quando una delle parti afferma di essere depositaria di valori appunto “non negoziabili”, e prospetta una rivolta permanente contro lo Stato»: esiste infatti «il rischio di un allineamento a un “indirizzo etico dominante”, di cui la Chiesa sarebbe unica depositaria».

Il problema, secondo Rodotà, è che la stessa pretesa della Chiesa Cattolica «d’avere il monopolio in questa materia rivela un’attitudine autoritaria, non compatibile con le regole di un sistema democratico».
A dire il vero non erano mancate precedenti sortite sul tema. In un articolo intitolato “Se la Chiesa sfida la Costituzione”, pubblicato su “Repubblica” il 14 febbraio 2007, Rodotà si era così espresso: «E’ ormai evidente che le gerarchie ecclesiastiche hanno deciso di collocare i loro interventi e le loro iniziative in una dimensione che va ben al di là del legittimo esercizio della libertà d’espressione e dell’altrettanto legittimo esercizio del loro magistero». Esse «giudicano i nostri tempi con una drammaticità che fa loro concludere che solo una presenza diretta, non tanto nella società, ma nella sfera propriamente politica, può rendere possibile il raggiungimento dei loro obiettivi».

La stessa affermazione di Benedetto XVI secondo cui «nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto con il diritto naturale», veniva vista da Rodotà come un’indebita ingerenza nei confronti dei parlamentari cattolici, e «una minaccia per la loro libertà da ogni “vincolo di mandato”», e per «l’autonomia e la sovranità del Parlamento» che non «devono cedere di fronte ad istruzioni provenienti da autorità esterne».
Non è un caso, del resto, che lo stesso Professor Stefano Rodotà nel 2010 abbia ricevuto il premio “Laico dell’anno 2009” dall’organizzazione laicista “Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni”, aderente alla EHF – FHE European Humanist Federation.e al BLI Bureau Laïque International (l’anno precedente il premio era andato al collega Vladimiro Zagrebelsky).

Rispettando il pieno la tradizione culturale radicale, Rodotà si è pure espresso, ça va sans dire, sui matrimoni omosessuali, con un articolo pubblicato il 15 luglio 2010 da “Repubblica”, intitolato “Matrimoni gay e doveri del Parlamento”, nel quale veniva, tra l’altro, invocato l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vieta ogni discriminazione basata sulle tendenze sessuali, e, soprattutto, l’art. 9 in cui si stabilisce che «il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
Spiegava, quindi, Rodotà in quell’articolo, «che nel quadro costituzionale europeo, al quale l’Italia deve riferirsi, esistono ormai due categorie di unioni destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone», «due categorie che hanno analoga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità: non è più possibile sostenere che esiste un principio riconosciuto – quello del tradizionale matrimonio tra eterosessuali – e una eccezione (eventualmente) tollerata – quella delle unioni omosessuali».

Sempre secondo il Professore, «in un paese che onora la civiltà della discussione e rispetta i diritti delle persone, queste dovrebbero essere le linee guida per il legislatore», e «poiché, invece, questi temi sono ormai oggetto della prepotenza ideologica di chi vuole imporre i propri valori, definendoli non negoziabili, può essere utile ricordare che il mondo cattolico non è riducibile alle gerarchie vaticane e a chi se ne fa portavoce».
Da segnalare, infine, anche la sortita di Rodotà sull’obiezione di coscienza in materia d’aborto.

In un’intervista rilasciata a Cinzia Sciuto il 3 dicembre 2011 sulla rivista “D” di “Repubblica”, il Professore è stato tranchant: «Oggi, a più di trent’anni dall’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, la possibilità dell’obiezione di coscienza dei medici andrebbe semplicemente abolita». E spiega anche perché: «Quando la legge è stata approvata la clausola dell’obiezione di coscienza era ragionevole e giustificata: i medici avevano iniziato la loro carriera quando l’aborto era addirittura un reato ed era comprensibile che alcuni di loro opponessero ragioni di coscienza», ma «dopo che la 194 ha saggiamente raggiunto un difficile equilibrio tra il diritto dei medici a non agire contro la propria coscienza e quello della donna a interrompere la gravidanza» non è più ammissibile obiettare.

«Oggi», infatti, per Rodotà «chi decide di fare il ginecologo sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, che rientra nei suoi obblighi professionali e non è più ragionevole prevedere una clausola per sottrarvisi». Alla domanda se una simile posizione non si configuri come un trattamento discriminatorio nei confronti degli obiettori, lo stesso Rodotà non ha il minimo dubbio: «No, perché si tratterebbe di adempiere a un obbligo normativo a cui gli ospedali non possono sottrarsi», trattandosi, peraltro, «di un obbligo della massima importanza. In questione infatti non c’è solo il diritto all’interruzione di gravidanza, ma il diritto alla salute della donna, che è un diritto fondamentale della persona e che non è mera assenza di malattia, ma benessere fisico, psichico e sociale».

«Se una donna che ha deciso di interrompere la gravidanza», secondo il Professore, «vive questa scelta in condizioni di malessere e di angoscia perché non sa se, quando e in che condizioni riuscirà a interromperla, c’è una evidente violazione del suo diritto alla salute, che è un diritto fondamentale della persona che non può essere subordinato a esigenze burocratiche o a mancanza di personale».
Questo è il profilo del Professor Stefano Rodotà, candidato Presidente della Repubblica da parte del movimento di Beppe Grillo. I cattolici italiani dovrebbero essere grati alla Provvidenza per lo scampato pericolo della sua elezione. Compresi i cattolici che per protesta hanno votato M5S illudendosi nella neutralità valoriale di quell’aggregazione politica.