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COSTITUZIONE

Riforme: se non migliorano gli uomini non serviranno leggi migliori

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Ogni maggioranza parlamentare prova a riformare la Costituzione. Questa maggioranza non fa eccezione. Ma le riforme che propone per cambiare l'esecutivo (presidenzialismo o premierato) e l'amministrazione (autonomia differenziata), porteranno cambiamenti positivi solo a certe condizioni.  

Politica 17_05_2023
Montecitorio

Ogni maggioranza parlamentare che si rispetti pone, al centro della sua agenda politica, il tema delle riforme costituzionali, in particolare della modifica della forma di Governo prevista dalla Costituzione repubblicana vigente del 1948: una repubblica parlamentare a «debole razionalizzazione», in cui cioè sono contemplati limitati interventi del diritto costituzionale per assicurare la stabilità del rapporto di fiducia e la capacità di direzione politica dell’Esecutivo (Bin-Pitruzzella).

Anche il centro-destra, uscito vincitore dalle elezioni politiche del 25 settembre 2022, ha deciso di intraprendere questa strada e, alla luce dell’intervento programmatico del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore al momento della richiesta della fiducia davanti alle due Camere, sta ora ragionando attorno a due ipotesi: un modello di tipo presidenziale, oppure il premierato con mantenimento della figura del Presidente della Repubblica. Non disponiamo, nel momento in cui si scrive, di alcun disegno di legge e, pertanto, le considerazioni qui svolte si limiteranno a registrare il «sentire politico» che attraversa i gruppi parlamentari di maggioranza e di opposizione. Per una maggiore comprensione dell’argomento, è opportuno articolare il ragionamento su tre punti:

Prima di tutto, la questione del metodo: è indubbio, in un sistema di Costituzione rigida come quello italiano, che ogni modifica del Testo fondamentale debba passare attraverso una legge di revisione costituzionale che segua l’iter aggravato (rispetto a quello di approvazione di una legge ordinaria dello Stato) di cui all’art. 138 Cost. Non sono mancati, in passato, tentativi di approvazione di legge di revisione della Costituzione con un procedimento derogatorio rispetto a quello delineato nel Testo fondamentale, ad esempio con l’istituzione di una apposita Commissione bicamerale di cui alla legge costituzionale n. 1/1997, ma il rischio è quello di un «abbassamento del livello di rigidità» al fine di una conclusione fausta e più veloce della modifica. A questo si aggiunga che, sebbene non sussista una preclusione di natura costituzionale alla presentazione di un disegno di legge di revisione costituzionale da parte del Governo della Repubblica, sarebbe certamente più opportuno e più conforme all’attuale modello parlamentare che il procedimento revisorio prenda avvio da una proposta di legge di iniziativa parlamentare. Il monito di Piero Calamandrei (1889-1956), in occasione della discussione del nuovo Testo costituzionale da parte dell’Assemblea costituente, dovrebbe valere anche per le riforme: «…i banchi del Governo dovranno essere vuoti». Sappiamo molto bene che non sarà così. Al contrario, si rileverà una presenza asfissiante di Ministri, Sottosegretari per assicurarsi che la maggioranza parlamentare non «inciampi…».

Secondo, la questione delle priorità. Che la forma di Governo delineata dalla Costituzione non funzioni è sotto gli occhi di tutti: un sistema bicamerale perfetto che rallenta l’iter legislativo, i «giochi» tra i partiti politici per sopravvivere, rimandando il più possibile le elezioni qualora si verifichi una crisi di Governo (parlamentare o extra-parlamentare) in nome della «solidarietà nazionale» e della «salus rei publicae» (i Governi Monti e Draghi ne sono un triste esempio) determinando spesso una cesura tra Paese reale e Paese rappresentato, il fatto che, nella prassi ed anche grazie alle leggi elettorali, il nostro modello costituzionale sia più vicino al semipresidenzialismo che a quello parlamentare con tanto di Capi dello Stato (Giorgio Napolitano) che istituiscono addirittura una Commissione di «saggi» per indicare le priorità dell’azione di Governo. Tuttavia, non si può modificare il Testo costituzionale vigente senza mutare il pensiero che innerva il costituzionalismo del secondo dopoguerra, ossia il formalismo giuridico "kelseniano" (da Hans Kelsen, giurista e filosofo del positivismo giuridico, dunque lo Stato "creatore di legge", ndr) coniugato ad uno "schmittismo" sociale (da Carl Schmitt, giurista e politologo di scuola realista, ndr)  per cui non è la Costituzione regola per la società, ma è la società regola per la Costituzione la quale assume la veste di un «documento da realizzare evolutivamente» con ricadute negative per l’autentico bene comune della comunità politica (Miguel Ayuso), in quanto il suo unico meta-valore assoluto è il continuo bilanciamento dei diritti e degli interessi (Gustavo Zagrebelsky). Una maggioranza di centro-destra non può limitarsi unicamente al modello costituzionale, ma deve riflettere su ciò ne costituisce la base ed il fondamento filosofico. In altri termini, e sulla scia dell’insegnamento di Danilo Castellano (Università degli Studi di Udine), è necessario riflettere sulla «Costituzione naturale» (Aristotele, De Maistre) quale «essenza» per la Costituzione positiva e le sue modifiche;

Terzo, la questione delle scelte. Si tratta di un aspetto, al momento, ancora poco chiaro, poiché ci troviamo in una fase di discussione e di «provocazione» tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione. Si parla di presidenzialismo: come ha insegnato, però, Balladore Pallieri (1905-1980), non esiste «la forma di Governo di tipo presidenziale», ma singoli presidenzialismi. C’è il modello delineato dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787, ma anche quello brasiliano o di alcuni Stati dell’Africa centrale. Qualora si vogliano rintracciare alcune linee comuni, il sistema presidenziale prevede, da una parte, un Capo dello Stato che è anche Capo del Governo con il potere di nomina e di revoca dei Ministri, la cui durata in carica ed i limiti di mandati successivi al primo sono stabiliti dalla Costituzione, dall’altro un’Assemblea legislativa (monocamerale o bicamerale) strutturalmente indipendente dall’Esecutivo (non c’è un rapporto di fiducia). In altri termini, un organo non ha influenza né sulla formazione, né sulla durata in carica dell’altro; tuttavia, per evitare paralisi del sistema o la prevalenza di un organo a scapito di un altro viene inserito nel Testo costituzionale un sistema di pesi e contrappesi. Si possono, pertanto, verificare fenomeni di dissociazione delle maggioranze, il Presidente (Capo dello Stato e del Governo) di un colore politico ed il Parlamento di un altro, oppure situazioni di omogeneità politica. Non mancano, comunque, voci a favore del premierato. Anche in questo caso è doveroso chiedersi in che cosa esso consista, dal momento che questa forma di Governo può ricevere diverse applicazioni: elezione a suffragio universale e diretto del Presidente del Consiglio dei Ministri, come avviene nel sistema neoparlamentare di Israele, oppure rafforzamento dei suoi poteri rispetto agli altri membri della compagine governativa: ad esempio, proposta di revoca dei Ministri e dei Sottosegretari etc., oppure entrambe queste soluzioni. Il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento non verrebbe intaccato e neppure si inciderebbe sul Presidente della Repubblica, organo costituzionale «a fisarmonica», come è stato definito dalla dottrina costituzionalistica, che in diverse occasioni ha debordato dal suo ruolo di «potere neutro» (per chi ancora ci crede).

In tutto questo si inserisce la partita dell’autonomia differenziata ex art. 116, comma 3, Cost., fortemente voluta dalla Lega e meno da Fratelli d’Italia, che porta necessariamente a dover ragionare anche sul rapporto tra centro e periferia. Resta un fatto: chi scrive è sempre più convinto che Edmund Burke (1729-1797) non avesse tutti i torti nelle sue riflessioni sulla Rivoluzione francese: sperare di cambiare radicalmente le modalità di organizzazione del potere politico attraverso leggi e decreti non è una pretesa sensata. Certo, molto può cambiare a causa di un decreto, ma, purtroppo, quasi mai nella direzione che il legislatore avrebbe voluto imprimere: nessuna riforma costituzionale è riuscita a realizzare l’immagine ideale che essa avrebbe voluto perseguire. Ma c’è di più: nessuna riforma costituzionale può assicurare un governo migliore, perché questo dipende da virtù che non stanno (almeno in misura sufficiente) nelle leggi, ma negli uomini.