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PD

Renzi vince le primarie. Ora non ha più alibi

Le primarie Pd hanno confermato tutte le previsioni della vigilia: Matteo Renzi, che aveva promesso di ritirarsi dalla politica, se avesse perso il referendum del 4 dicembre scorso, è già tornato ottenendo il 74% dei voti. D'ora in avanti non avrà più alibi. Se il Pd perderà ancora città e consensi, sarà sua la responsabilità.

Politica 01_05_2017
Un gazebo delle primarie del Pd

Accompagnate dalle solite polemiche sulla loro regolarità (episodi dubbi in Puglia, Sicilia e Calabria) e la loro utilità, le primarie Pd hanno confermato tutte le previsioni della vigilia: Matteo Renzi, che aveva promesso di ritirarsi dalla politica, se avesse perso il referendum del 4 dicembre scorso, è già tornato, anzi potremmo dire che non è mai andato via. Da oggi è nuovamente segretario del Pd e, come da statuto del partito, restera' in carica 4 anni e sarà il candidato premier alle prossime elezioni politiche. Ora, forte della nuova investitura, cercherà di propiziare in ogni modo lo scioglimento anticipato delle Camere per tornare al più presto a Palazzo Chigi (sempre che vinca le elezioni) ed evitare di continuare ad appoggiare un governo chiamato a scelte impopolari come la manovra finanziaria d’autunno.

La verità è che Renzi, d’ora in poi, non avrà più alibi. Già alle amministrative di giugno il suo partito dovrà dimostrare di aver assorbito il trauma della scissione dei bersaniani e dalemiani. Se dovesse perdere la guida di città importanti e registrare, come probabile, una flessione percentuale consistente in termini di consensi, si aprirebbe inevitabilmente un processo interno al neosegretario e un probabile regolamento di conti nella sinistra, anche in vista della scelta dei futuri alleati.

Oltre un milione e 800mila persone (nel 2013 erano state 2.800.000) si sono recate ai quasi 8.000 gazebo allestiti ieri in tutt’Italia e rimasti aperti dalle 8 alle 20, con code anche fuori orario. La scelta era tra Renzi, che ha raccolto quasi il 74%, il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando (circa il 20%), il governatore della Puglia, Michele Emiliano (circa il 6%). Ciascuno dei votanti ha versato due euro di contributo e su questo aspetto sono già scoppiate le prime polemiche. Anzitutto perché in alcuni seggi non sono state rilasciate le ricevute del versamento. Poi perché Beppe Grillo ha difeso la modernità democratica delle primarie online dei Cinque Stelle contrapponendole alle “primarie a pagamento” del Pd, da lui criticate aspramente.

In effetti le primarie hanno perso molto dell’entusiasmo di dieci anni fa. E’ vero che nel centrodestra non sono mai state fatte, ma va detto, al netto di ipocrisie e infingimenti, che l’esito di tali consultazioni popolari è sempre apparso scontato fin dall'inizio. Che Renzi stravincesse le primarie era nell’aria. L’ex premier, tanto più dopo la fuoriuscita dei suoi principali oppositori interni (dalemiani e bersaniani), ha il quasi totale controllo del partito e quindi non correva rischi in questa verifica elettorale.

Il nodo da scegliere, invece, riguarda la compresenza, nello stesso partito, di tre sfidanti che hanno visioni molto diverse della sinistra, delle alleanze e delle politiche da attuare. In qualsiasi altro Paese, Renzi, Orlando ed Emiliano militerebbero in tre partiti diversi. Poche le affinità e i punti di contatto tra di loro, moltissime le differenze sostanziali e di cultura politica, che si traducono in scelte strategiche inconciliabili. Renzi esclude un governo con gli scissionisti, confermandosi divisivo nell’area di sinistra, ma non un governo con Berlusconi e il centrodestra, alimentando le voci su un possibile Nazareno bis. Orlando punta a ricostruire un centrosinistra unito, sul modello ulivista, che dialoghi con i bersaniani e con Pisapia e che sia chiaramente contrapposto al centrodestra. Emiliano vuole unire la sinistra ma soprattutto punta ad un’alleanza, anche governativa, con il Movimento Cinque Stelle. Tre prospettive politiche molto diverse, che convivono sotto le insegne dem, il che disegna un quadro foriero di lacerazioni ancora più profonde di quelle che si sono già registrate nei mesi scorsi.

A questo punto Renzi torna ad essere a tutti gli effetti il principale azionista del governo, guida il partito di maggioranza relativa e deve trovare il modo di distinguersi il più possibile da Gentiloni. Il suo obiettivo è votare la prima domenica di novembre, affinchè le grane di una manovra “lacrime e sangue” si scarichino sul prossimo governo post-elezioni. Qualora, però, la legislatura durasse fino alla fine e l’attuale esecutivo continuasse ad avere i numeri in Parlamento, anche con la benedizione del Quirinale, il piano B di Matteo prevede l’”election day” a maggio 2018, con l’accorpamento delle politiche e delle regionali in alcune delle principali regioni (Lombardia in testa). In quest’ipotesi ci sarebbe il tempo per il Pd di recuperare consensi dopo il prevedibile calo legato alle scelte economico-finanziarie di fine 2017. Questo almeno crede Renzi.

Intanto, però, da oggi Renzi ha nuovamente un ruolo politico formalizzato e potrà logorare con ancora maggiore efficacia il governo Gentiloni, condizionando la condotta e le scelte dei gruppi parlamentari e promettendo ricandidature sulla base della fedeltà a lui e alla sua linea. Tutto questo rende più cupo il futuro della legislatura e ancora più cosparso di insidie il percorso a ostacoli dell’attuale premier.