Religioni, collaborazione contro il secolarismo
Una totale continuità nel dialogo ecumenico con la strada tracciata da Benedetto XVi è stata affermata da papa Francesco nell'incontro con i rappresentanti delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni.
- Custodire Cristo, come Giuseppe
- Messori: è in continuità con Ratzinger
- Vai al Dossier su Papa Francesco
Il 20 marzo Papa Francesco ha incontrato i delegati delle Chiese e comunità cristiane in dialogo ecumenico con Roma, insieme a rappresentanti dell’ebraismo, dell’islam e di altre religioni. L’incontro è stato occasione per ribadire i principi in tema di ecumenismo e di dialogo interreligioso che hanno caratterizzato il Magistero di Benedetto XVI. Quanto all’ecumenismo con gli altri cristiani, partire non dalle mediazioni umane ma dalla fede. Quanto al dialogo interreligioso, cercare la collaborazione anzitutto sul piano della legge naturale e del «bene comune», e comprendere che le religioni oggi devono necessariamente collaborare di fronte al secolarismo che riduce l’uomo alla sua sola dimensione materiale e a un «tentativo di eliminare Dio dall’orizzonte dell’umanità» che genera violenza nella storia.
Non è sfuggito, pure in un caloroso incontro ecumenico, l’uso della terminologia adottata da Papa Francesco, che ha salutato i «Delegati delle Chiese Ortodosse, delle Chiese Ortodosse Orientali e delle Comunità ecclesiali d’Occidente». È la terminologia di Benedetto XVI: quelle ortodosse, cui la Chiesa Cattolica riconosce la successione apostolica, sono «Chiese», quelle protestanti «comunità». Questa terminologia viene dalla dichiarazione «Dominus Iesus» del 2000, sottoscritta dal cardinale Ratzinger come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in cui si legge: «Le Chiese che, pur non essendo in perfetta comunione con la Chiesa Cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la valida Eucaristia [cioè quelle ortodosse], sono vere Chiese particolari […].Invece le comunità ecclesiali che non hanno conservato l’Episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico [cioè quelle protestanti], non sono Chiese in senso proprio» ed è quindi preferibile chiamarle «comunità».
Il Papa ha voluto «assicurare, sulla scia dei miei Predecessori, la ferma volontà di proseguire nel cammino del dialogo ecumenico», di cui ha indicato la rotta. La realizzazione dell’unità tra i cristiani, ha detto, «dipende dal piano di Dio e dalla nostra leale collaborazione». Ultimamente, non è una questione di diplomazia, ma di fede, come ha ricordato «durante quest’anno che il mio venerato predecessore, Benedetto XVI, con intuizione veramente ispirata, ha proclamato per la Chiesa cattolica Anno della fede»: una «iniziativa – ha detto il Pontefice –, che desidero continuare e spero sia di stimolo per il cammino di fede di tutti».
Qui, infatti, sta «l’essenziale: il rapporto personale e trasformante con Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza». E anche «il cuore del messaggio conciliare» del Vaticano II, di cui l’Anno della fede celebra il cinquantenario, non va cercato altrove ma «proprio nel desiderio di annunciare questo tesoro perennemente valido della fede agli uomini del nostro tempo».
L’ecumenismo, ha ricordato Papa Francesco, è stato presente nel Concilio fin da queste parole del beato Giovanni XXIII (1881-1963) nel discorso d’inaugurazione del 1962: «La Chiesa Cattolica ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre Celeste nell’imminenza del suo sacrificio; essa gode di pace soavissima, sapendo di essere intimamente unita a Cristo in quelle preghiere». «Vivere in pienezza quella fede che abbiamo ricevuto in dono nel giorno del nostro Battesimo», darne «testimonianza libera, gioiosa e coraggiosa» sarà dunque «il nostro migliore servizio» alla causa ecumenica.
Il Pontefice si è poi rivolto ai rappresentanti del mondo ebraico, «al quale ci lega uno specialissimo vincolo spirituale, dal momento che, come afferma il Concilio Vaticano II, “la Chiesa di Cristo riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè, e nei profeti” (Decr. Nostra aetate, 4)». Papa Francesco rivendica il fatto che, nonostante le difficoltà, il cammino di dialogo e di approfondimento del significato di questo vincolo con gli ebrei è effettivamente andato avanti nel corso degli ultimi pontificati: «si è effettivamente realizzato, portando non pochi frutti, specialmente nel corso degli ultimi decenni».
Il Papa ha quindi salutato «i Musulmani, che adorano Dio unico, vivente e misericordioso, e lo invocano nella preghiera» e i rappresentanti di altre religioni. Con loro ha sottolineato la possibile «cooperazione per il bene comune dell’umanità», un accenno anche qui al legato di Benedetto XVI, il quale amava precisare che il dialogo interreligioso – se è più incerto e difficile quando prende la strada del confronto tra teologie – può e deve trovare un terreno comune nella legge naturale, finalizzata al bene comune, che la ragione di ognuno può riconoscere a prescindere dalla sua appartenenza religiosa. C’è una responsabilità che «tutti portiamo verso questo nostro mondo, verso l’intero creato, che dobbiamo amare. E noi possiamo fare molto per il bene di chi è più povero, di chi è debole e di chi soffre, per favorire la giustizia, per promuovere la riconciliazione, per costruire la pace».
Papa Francesco è tornato anche su un altro tema carissimo a Benedetto XVI, la necessità di una testimonianza comune delle religioni di fronte al secolarismo: «soprattutto, dobbiamo tenere viva nel mondo la sete dell’assoluto, non permettendo che prevalga una visione della persona umana a una sola dimensione, secondo cui l’uomo si riduce a ciò che produce e a ciò che consuma: è questa una delle insidie più pericolose per il nostro tempo». Il secolarismo, infatti, fa male. «Sappiamo quanta violenza abbia prodotto nella storia recente il tentativo di eliminare Dio e il divino dall’orizzonte dell’umanità, e avvertiamo il valore di testimoniare nelle nostre società l’originaria apertura alla trascendenza che è insita nel cuore dell’uomo».
Gli atei stessi possono riconoscere quanto necessaria sia quest’apertura al sacro. L’ateo «in ricerca» va distinto dal secolarista aggressivo chiuso e ostile per principio alla religione. Così il Papa saluta pure «quegli uomini e donne che, pur non riconoscendosi appartenenti ad alcuna tradizione religiosa, si sentono tuttavia in ricerca della verità, della bontà e della bellezza, di Dio». Questi non credenti «in ricerca» possono essere, anzi di fatto «sono nostri preziosi alleati nell’impegno a difesa della dignità dell’uomo, nella costruzione di una convivenza pacifica fra i popoli e nel custodire con cura il creato».