Regime sanitocratico, nuova incarnazione del fascismo
Gli avvenimenti dell'ultimo anno hanno drammaticamente mostrato quanto sia facile ancora in Italia lo scivolamento dalla democrazia liberale costituzionale ad un regime dittatoriale. E quanto nella cultura diffusa del paese sia poco sentita la preoccupazione per le libertà fondamentali, e trovino largo, trasversale consenso provvedimenti, norme, procedure, atteggiamenti del tutto illiberali. Proprio echeggiando la retorica del regime fascista di un secolo fa, l'autoritarismo del “regime sanitocratico”, con l'ausilio di un sistema dei grandi media quasi totalmente omologato alla “narrazione” governativa, ha impostato la sua pretesa di rappresentare l'unità nazionale contro l'emergenza sanitaria sulla pretesa della “fede” dei governati.
Per tanto tempo ho pensato che Piero Gobetti avesse torto quando diceva che il fascismo era “l'autobiografia della nazione”, e che invece avesse ragione Benedetto Croce a dire che esso rappresentava una “parentesi” nella storia del progressivo radicamento, attraverso la costruzione dello Stato unitario, di una cultura liberale. Una posizione che non negava la drammaticità della crisi di cui il regime mussoliniano era stato espressione, né il larghissimo consenso che lo aveva sostenuto, ma considerava quel periodo una fase transitoria dialetticamente superata.
Ho continuato a pensare che avesse ragione Croce anche alla luce delle crisi successive vissute dalla democrazia italiana: dalla sfida interna del comunismo durante la guerra fredda al terrorismo degli anni Settanta, fino al collasso dei partiti sotto la deriva giustizialista e al sostanziale commissariamento “tecnico” esterno del 2011. Ma sempre più ho maturato la convinzione che sussistesse comunque una difficoltà strutturale mai superata alla solidità, nel nostro paese, di un ordinamento fondato su libertà e diritti individuali e sulla sovranità popolare. Ad ogni tornante della storia, infatti, emergevano nuovi ostacoli, nuove crisi di rigetto, nuove tendenze autoritarie.
Gli avvenimenti dell'ultimo anno hanno drammaticamente consolidato questa convinzione, mostrando con chiarezza quanto sia facile in Italia ancora oggi, e forse oggi anche più che mai, lo scivolamento dalla democrazia liberale costituzionale ad un regime dittatoriale. E quanto nella cultura diffusa del paese sia poco sentita la preoccupazione per le libertà fondamentali, e trovino largo, trasversale consenso provvedimenti, norme, procedure, atteggiamenti del tutto illiberali.
“Privi di interessi reali, distinti, necessari gli Italiani chiedono una disciplina e uno Stato forte”, scriveva Gobetti nel suo celebre editoriale del 23 novembre 1922. “Né Mussolini né Vittorio Emanuele”, egli proseguiva, “hanno virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi”. Un animo di schiavi che si traduceva a suo avviso in una concezione “infantile” della politica e della società: cioè nel rifiuto del conflitto, della competizione, del confronto tra punti di vista diversi, e nella invocazione di un potere “paterno” in grado di “mettere tutti d'accordo”, con le buone o con le cattive. Come i podestà nei comuni medioevali, come i principi dell'assolutismo illuminato, come lo Stato etico gentiliano fatto proprio da Mussolini.
L'”autobiografia” di cui parlava Gobetti consisteva proprio in questi tratti caratteriali sedimentati nel tempo: la costante immaturità che fa preferire agli italiani l'attesa passiva della protezione rispetto alla fatica dell'autogoverno, la garanzia dell'immobilità sociale rispetto ai rischi e alle opportunità del mutamento.
Se assumiamo come orientamento la “pigrizia” civile di un popolo frammentato che trova un tratto unitario nell'aspirazione ad una classe media protetta, lontana da imprevisti e responsabilità, possiamo meglio comprendere la tendenza, riscontrabile fin dagli esordi dello Stato nazionale, a “congelare” il pluralismo politico ricorrendo a governi il più possibile unitari, giustificati con incombenti minacce alla vita collettiva: prima il sovversivismo socialista e l'opposizione cattolica, poi le conseguenze sociali della Grande guerra e il bolscevismo. Una tendenza che avrebbe avuto una nuova, imponente riproposizione nella seconda metà del Novecento, a partire dalla crisi del sistema consensuale dei partiti nella “democrazia bloccata” della guerra fredda, quando quelle minacce sarebbero state battezzate “emergenze”: la crisi economica mondiale degli anni Settanta, il terrorismo, la mafia, la corruzione politica, la grande recessione del 2008.
L'”emergenzialismo” avrebbe visto successivamente un passaggio fondamentale dall'invocazione di unità tra i partiti (dai governi “trasformisti” di epoca liberale al “compromesso storico” di Moro e Berlinguer, passando appunto per il Partito unico mussoliniano) a quella di poteri super- ed extra-politici: i magistrati “in trincea”, gli economisti, i “professori”.
La politica seguita dall'Italia rispetto all'epidemia di Covid-19 rappresenta per molti versi l'apoteosi dell'emergenzialismo italiano, con la corrispettiva pulsione ad azzerare una dialettica pluralista in nome di una retorica dogmatica fondata sull'assunzione che “siamo in guerra”, e che questo sforzo comune esige l'abolizione delle differenze di opinione, e la concorde adesione alle scelte governative. L'adozione del più severo regime di restrizioni alle libertà costituzionali, alle attività economiche e alla cultura nel mondo occidentale, così come l'accentuata caratterizzazione “tecnica” dei governi di Giuseppe Conte, e più ancora di Mario Draghi, hanno trovato, in particolare, il loro esemplare punto di congiunzione nell'autorità cruciale e indiscussa attribuita a un nuovo tipo di figura presunta “super partes”: il virologo, e più genericamente “la Scienza”, dietro le cui indicazioni la classe politica e gli stessi “tecnici” capi degli esecutivi costantemente si trincerano, attribuendo al suo responso ogni sacrificio e divieto imposto ai cittadini.
Proprio echeggiando la retorica del regime fascista di un secolo fa l'autoritarismo del “regime sanitocratico”, con l'ausilio di un sistema dei grandi media quasi totalmente omologato alla “narrazione” governativa, ha impostato la sua pretesa di rappresentare l'unità nazionale contro l'emergenza sanitaria sulla pretesa della “fede” dei governati. In base a quella narrazione, bisogna innanzitutto “credere” nella scienza, intesa non come ricerca e discussione critica, ma come “verbo” assoluto, così come “somministrato” dalle fonti ufficiali. E bisogna parimenti “obbedire e combattere”, adeguandosi alle disposizioni ufficiali, senza pretendere di tornare alla normalità della vita privata, economica e civile, se non quando l'insindacabile “comitato di salute pubblica” deciderà che il Nemico è stato sconfitto.
Una rappresentazione totalmente alterata e adulterata della realtà propria di tutti i regimi autoritari. Che inoltre, come quelli totalitari, esige la continua mobilitazione di massa: dal “restate a casa” al vaccino indiscriminato, contro ogni ragionevolezza autenticamente scientifica, come panacea dalla presunta “peste”. E che eccita nei sudditi la continua lotta contro il “nemico interno”, il traditore della causa: demonizzato sotto la forma di chi non rispetta le “regole” arbitrariamente imposte e spesso totalmente inutili, come la mascherina indossata all'aperto o il coprifuoco, e di chi in generale continua a fare il più possibile una vita normale. O nel nemico pubblico per eccellenza: il “no vax”, ossia chiunque ponga in discussione la “religione” neopagana del vaccino miracoloso.